l Sapiens è un onnivoro aumentato capace di mangiare di tutto, o quasi. Inoltre è un vorace divoratore di icone, di simboli, di valori, disposto a utilizzare amatriciane, fiorentine, sushi, pokè, spritz e pecorini per i più svariati scopi extra-alimentari: raccontarsi, distinguersi, professarsi, fantasticare, connettersi agli altri, dare senso al tempo e ai fatti che lo riguardano.
Oltreché, naturalmente, per accaparrarsi qualunque cosa sia in grado di procurargli appagamento, beatitudine e soddisfazione. Anche se questo include cose inutili o dannose per la nutrizione e la salute: compreso il mangiare quando si è sazi o l’inghiottire generose quantità di sostanze nocive variamente presenti in molti cibi dall’elevato richiamo gustativo. Quanto tutto ciò accada nella consapevolezza o nell’automatismo dei comportamenti è precisamente quello che il libro si prefigge di indagare, adottando un misurato sguardo da lontano con cui mettere a fuoco ciò che è troppo vicino per essere compreso.
L’AUTORE | Ernesto Di Renzo
Abruzzese delle montagne ma da anni residente a Roma, è antropologo all’Università di Roma Tor Vergata dove ricerca e approfondisce, da prima che l’argomento diventasse un tema ridondante degli studi accademici, i significati culturali che l’uomo costruisce attorno al cibo e gli infiniti modi in cui decide di mangiarlo.
LA PREFAZIONE | Alberto Capatti
Attendetevi a domande, quesiti, ipotesi, e soprattutto a essere coinvolti da problemi che vi eravate forse posti, d’acchito, enunciati qui con una sfrontata chiarezza in attesa di una vostra risposta. Di Renzo vi offre letture progressive e diversificate, riunite sotto titoli suggestivi e persino letterari, “Una foresta di simboli” di baudelairiana memoria, stuzzicandovi con indovinelli quali: “pane bianco vs pane nero”. Tutto il nostro modo di pensare, dire il pane, è virtualmente chiamato a rispondere.
Cari lettori, tocca a voi, dopo una attenta valutazione, offrire a voi stessi e a quanti hanno condiviso A proposito del gusto, quei pani della vostra e altrui memoria o del quotidiano consumo, neri o bianchi o gialli o bruni. Anche le croste e le briciole non andranno dimenticate, tanto più che l’approccio è analitico e sintetico. Nessun problema che mi ero posto è qui trascurato, anche le astrazioni illusive come il chilometri zero, con il risultato che ci troviamo di fronte ad un prospetto non solo del passato e del presente ma del prossimo futuro. Ripetutamente si fa riferimento al metodo. Nel capitolo intitolato Gli spaghetti e l’antropologia, tutto è costruito con due ricette, una terrestre e quotidiana, la seconda extraterrestre. Una fantasia da marziani? Per nulla, da antropologi che, per comunicare, usano costruire scenari razionali, considerando l’immaginario un linguaggio che merita di essere testato e spiegato, quindi a prova di spaghetto. È chiaro che un discorso sul metodo, un discours de la méthode, oggi non parte più da “Mangio dunque sono!”, ma dai cento, mille piatti in cui mi riconosco o che non arrivo a comprendere, da cui cerco di ricavare regole, ricette, o soddisfazioni. Un’analisi a tutto campo è qui suggerita, rovesciando la regola cartesiana che pre- suppone interpretazioni sintetiche, restrittive, in una indagine infinita di cui questo libro è la misura e solo l’inizio.
Uno storico del passato può esser colto da sconcerto davanti a kebab o polenta tanto il cibo altrui è reciproco e prima che date, anni, richiede un rapporto diretto a partire dal quale cerco testimonianze, documenti. L’antropologo mi mette con le spalle al muro, faccia a faccia con il consumatore di razza kebab, e lascia che io rifletta sulla mia polenta, da questo preciso, duplice, punto di vista. Lavoriamo di testa, ognuno con la sua ricettina, e il mio assaggio del kebab è seguito da una cucchiaiata di polenta che non è più la stessa, tanto più che il granoturco ci è venuto da molto lontano, ne ha fatta di strada. Antropologia è dunque attenzione anzitutto a quanto ci circonda, anche ad un cous cous in scatola o una polsvelta.
Se il vino viene trattato a sé, e il bevitore d’acque non merita eguale attenzione, i cibi sono enigmi sincronici e diacronici, e nessun modo è più efficace per raccontarli che inserendoli in liste, elenchi affascinanti proprio perché irragionevoli di primo acchito, e metodici ad una seconda lettura.
Quello che mi ha sedotto in questo libro dal titolo discreto, è proprio la voluttà di ripetere, l’una dopo l’altra, “carbonare, caponate, scaloppine e sushi”, di tradurle da parole in ricordi e di rilanciarli in nuovi modi di comunicare. Facendo sì che grazie a questo, “noi siamo soprattutto mangiatori di immagini, degustatori di narrazioni, divoratori di simboli”.
E anche traduttori domestici, dai diversi accenti, emigrati oltre Atlantico con “spaghetti and meatballs, bolognese, Parmesan, Romano cheese, Capri salad, Alfredo sauce, bracchiole, fettucini” e, più in generale nel vasto mondo, con “reggianito, barollo, Cantia, Kressecco, esparguete, pastaschuta, milaneza, zottarella, carbonari, osso bucco”.
Passo immediato è prenderne uno solo, una Alfredo sauce, e non solo esplicitarne le ricette, infinite negli USA e in Canada, tutte sconosciute in Italia, ma riscoprire chi era questo Alfredo, in via della Scrofa a Roma, in che anni operava con successo, negli anni Trenta, recitando, interpretando nel suo ristorante, come in un teatrino, la sauce in questione. Ai clienti riservava il piacere di vederlo mescolare spaghetti doppio burro, doppia panna, e di servirli di persona.
A proposito del gusto vi invita a questo e ad altri giochi, partendo da una, due, tre parole in fila le une dopo le altre, e tornando poi a riflettere, con la lente d’ingrandimento dell’antropologo, a quanto avete letto. Non temete, a guidarvi c’è un programma, e, alla fine, spero che a vostra volta snocciolerete, enunciando mentalmente liste di nomi di piatti, afferrandone la conseguenza, ricostruendone le problematiche.
INCIPIT | PENSARE AL CIBO OGGI
È assai arduo dare alle stampe un libro sul cibo e le pratiche sociali del mangiare ai tempi disgraziati del Coronavirus. Così come è altrettanto arduo pensare che quanto si è scritto anteriormente al marzo 2020 possa continuare a incrociare il gradimento e gli interessi di chi legge oggi. Ciò perché si è tutti totalmente immersi, e persi, in un frangente di eccezionalità che richiama con forza a cose di differente natura e priorità. Cose che orientano i bisogni quotidiani verso altrovi in cui tutto è nebuloso, incerto, da definirsi. Ma soprattutto che dànno la sensazione che niente potrà tornare a essere come prima e che, di conseguenza, quanto si potrà leggere in queste pagine sembrerà appartenere a un passato non riguardante più niente e nessuno.
Allora che fare, rinunciare? Dichiararsi storico? Professarsi archeologo? Oppure è più conveniente ricominciare da capo nella scrittura, indirizzandola verso quei temi dell’oggi che la premierebbero del beneficio psicologico da instant book. Come si può capire il dilemma non è affatto di quelli semplici. E dunque, a rischio di incorrere in una strana e particolare forma di obsolescenza programmata (addirittura prenatale), si è deciso di andare avanti lo stesso nel progetto editoriale, sperando nella curiosità del lettore di volersi riconoscere in ciò che era, che è, e che comunque continuerà a essere: un onnivoro curioso che nel cibo vede nutrimento, sostentamento, piacere, novità, divertimento, sapere, arte. In una parola, cultura. Un onnivoro curioso ma anche un onnivoro “a scartamento ridotto”, se si tiene conto di tutte le regole, i limiti, i divieti che lo orientano nella scelta delle cose da mangiare. Un onnivoro diverso dai suoi consimili suidi, muridi, ursidi, blattoidi, ciprinidi che mangiano tutto ciò che le loro bocche riescono a ingurgitare, gli stomaci a digerire e gli intestini ad assimilare: senza porsi scrupoli di sorta e in assenza di qualsivoglia pulsione etica.
L’onnivoro umano, al contrario, pur potendo saziarsi di varietà assai diversificate di alimenti, di fatto sottopone le sue scelte a limitazioni – in parte autodirette, in parte eterodirette – che hanno a che vedere con le ideologie, le appartenenze etniche, le identità territoriali, le credenze religiose e i modelli estetici condivisi. Ma che hanno a che vedere anche con le food policies messe in atto da chi, nel mondo, opera nella filiera agroalimentare attuando (sempre più spesso) scelte utili più al perseguimento dei budget aziendali che al vantaggio salutistico dell’uomo e dell’ambiente.
Quello che le pagine del libro intendono offrire alla curiosità del lettore non ha a che vedere solo con quanto, nel concreto e nell’astratto, agisce nel rendere il Sapiens un polifago dal profilo dimezzato. Bensì, e soprattutto, con quanto lo fa essere un “onnivoro aumentato”. Un divoratore di icone, di simboli e di valori, disposto a utilizzare il cibo per i più svariati scopi extra-alimentari: raccontarsi, distinguersi, connettersi con i suoi simili, dare senso al tempo e ai fatti che lo riguardano. Oltreché, naturalmente, per accaparrarsi tutto quanto è in grado di procurargli appagamento, beatitudine e soddisfazione. Anche se questo include cose inutili, o dannose, per la nutrizione e la salute: compreso il mangiare quando si è sazi o l’inghiottire generose quantità di sostanze tossiche quali miristicina, latirina, fasina, linamarina, solanina ed etilene, variamente presenti in tipologie di prodotti dall’elevato richiamo gustativo.
Dopo questa travagliata esperienza che ha coinvolto il mondo intero, dominata dalla quarantena e dall’autarchia culinaria, forse occorrerà del tempo prima che si possa tornare di nuovo a fare viaggi del gusto, a organizzare picnic, a praticare scampagnate, a desinare in ristoranti affollati. Ma anche a riprendere confidenza con i cibi etnici, a rif requentare i mercati ortof rutticoli e a ripopolare le sagre gastronomiche: soprattutto per adeguarsi a quei raccomandati “distanziamenti sociali”, tanto necessari sul piano sanitario, quanto infelicemente ‘classisti’ su quello lessicale. Ciò non toglie che il mangiare continuerà a essere per chiunque un’operazione primaria volta non solo a fornire di carburante la nostra complessa macchina metabolica, ma anche a soddisfare quel variegato set di funzioni immateriali, simboliche, sociali e connettive cui l’alimentazione risponde fin da quando gli uomini hanno preso a essere gli animali che cucinano.
Di tutte le immutabili e perduranti attribuzioni che rendono il cibo materia idonea a rappresentarci umani, le seguenti pagine mirano a fornire una fugace e agile lettura. Anche se il Covid-19 rischia di rendere tutto più complicato.

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