Sperimentale, complesso, in grado di scindere la critica in due fazioni precise. Spira Mirabilis non è propriamente un film, non è neanche un documentario, stando ai rigorosi canoni dell’etichetta. Il nuovo progetto di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, ammesso in concorso per il leone d’oro alla mostra di Venezia giunta da poco alla sua conclusione, ci ha sbalorditi e non poco.

Per un film del genere non possono mancare spettatori e critici che dopo trenta minuti esatti vanno via dalla sala, ma non potrebbe essere altrimenti. Non c’è da parte nostra il desiderio di rimarcare una questione assai complessa, un polverone da festival ( particolarmente vicino alla biennale di quest’anno) , ovvero il capzioso quesito su ciò che il cinema dovrebbe essere, su quanto una pellicola possa chiedere al suo spettatore e fino a che punto le è concesso stancarlo.

Spira Mirabilis stanca e non poco, ma dando fiducia ai registi per due ore piene si giunge ad una certa soddisfazione, quel “non so che” assente al termine di troppe proiezioni. Il rumoroso documentario smembra il concetto d’immortalità attraverso le limpide sequenze di quattro filoni distinti che si rifanno ai quattro elementi fondamentali: acqua, aria, terra e fuoco.

Un ricercatore giapponese intento nell’osservazione di una particolare medusa (turritopsis) detta “immortale” per via delle sue capacità rigenerative. Un’officina di suoni, o meglio di bizzarri strumenti musicali, seguita passo dopo passo fino al conseguente utilizzo del prodotto finale. Una comunità di pelle rossa memore delle vecchie battaglie per la propria indipendenza. Infine uno sguardo sulla manutenzione delle statue del duomo.

Un vero e proprio viaggio sensoriale, poco razionale, da abbracciare senza esitazione, in cui siamo accompagnati dalla poetica voce di Marina Vlady. Un ritorno alla primordialità di suoni, segni, elementi e vita. L’eccezionale fotografia di D’anolfi sposa la scelta musicale di Mariani, un sottofondo dalle venature del genere “ambient” che spezza i metallici suoni da officina, proiettandoci in un sogno filmico dalle tinte filosofiche.

C’è tanta scuola dietro, c’è il lavoro di formazione de “l’infinita fabbrica del duomo”, c’è la tendenza alla videoarte, distante forse nei modi ma sulla stessa scia per obiettivi (non aspettatevi le impalpabili sequenze di Brakhage insomma).

Un’elegia archétipa che termina ai confini del sensibile, necessariamente, dove il desiderio umano d’immortalità si specchia nelle sue stesse creazioni, restando teneramente angosciato dalla sua finitezza; al massimo si finisce con il cantare un’allegra canzone o ad ascoltare storie di chi è rimasto in vita nonostante la morte, quasi sempre, nel ricordo di eventi spiacevoli.