Coraggioso, perfido nel colpire l’élite europeo, a tratti semplicista. Parliamo di Erik Gandini, documentarista italiano naturalizzato svedese e del suo ultimo lavoro: La teoria svedese dell’amore.

Gandini, già noto alla popolazione scandinava per l’abilità di sollevare polveroni, si è ripetuto, dichiarandosi anche felice d’essere riuscito ad appiccare una scintilla in quel gelo ricco e stabile, a nord dell’Europa, chiamato Svezia.

Alla base della regola scandinava dell’amore c’è l’indipendenza, sogno (non più molto un sogno) di rendere ogni cittadino svedese padrone della sua singola esistenza, progetto con cui la società impalca un nuovo paradigma fondato su donne single libere d’acceder accedere all’inseminazione via posta, la previdenza sociale che si occupa dei singoli individui non necessariamente coinvolti in dinamiche familiari, decostruendo ogni tipo di dipendenza relazionale. Gandini mostra gli enormi progressi sociali, ma anche una concisa e semplice spiegazione delle inevitabili conseguenze.

L’indipendenza non è fonte di felicità. Si muore soli in casa e le scoperte dei cadaveri vengono fatte anche a distanza di anni e solo grazie a segnalazioni di vicini e conoscenti. Inutile è accumulare soldi in banca. Inutile è per chi chiede asilo politico imparare i modi, la lingua e le tradizioni svedesi, visto che “nessuno parla con nessuno”. Gandini, senza brillare registicamente, limitandosi a raccontare dal suo punto di vista le desolate vite dei suoi concittadini, si ritrova a dover parlare di sociologia e, a grandissime linee, anche di filosofia. Forse esagera anche il regista, ci mette del suo nella realtà che dovrebbe semplicemente riportare.

Gandini proprio non ci crede a questo piano svedese dell’amore. Per contrasto ci mostra le dinamiche opposte, l’Africa e l’interdipendenza dei singoli. Attraverso le parole di un medico svedese, le popolazioni africane si compongono d’individui che non sono mai soli. Un vero e proprio tiro alla fune dunque, dove da una parte gareggia il progresso e l’indipendenza, dall’altra la comunità e l’altruismo, anche a discapito dei propri interessi.

Gandini sa bene di dover correre ai ripari, di mettere in salvo il suo punto di vista, facile bersaglio di movimenti femministi e simili. Lo fa dando parola al sociologo Zygmunt Bauman, figura attraverso cui la pellicola trae il beneficio scientifico ed intellettuale. Lo studioso trova la soluzione, bandendo il nuovo sistema svedese senza dover cadere nei ruoli distintivi del genere e altre argomentazioni di matrice misogina. L’interdipendeza è alla base della felicità dell’uomo che in nessun modo può vivere bene se esclude la comunicazione diretta con l’altro.

La visione lascia l’amara sensazione dell’aver sentito una sola campana, una singola voce dalla pretesa di passare come unica e oggettivante. Il merito del regista italo-svedese sta nel riuscire a parlare in modo semplice, fruibile e mai noioso di questioni su cui è complicato prendere salde ed incrollabili posizioni. Da sempre trattiamo con i guanti i film in grado d’aprire il dibattito.

La teoria svedese dell’amore giunge nelle sale con leggero ritardo rispetto al decisamente più “invasivo” Moore, documentarista statunitense che a più riprese ha lodato diversi aspetti sociali delle popolazioni nordeuropee nel suo ultimo documentario.