Un affare di famiglia, ultimo film del regista giapponese Hirokazu Kore’eda, vincitore della palma d’oro allo scorso festival di Cannes, sarà nelle nostre sale dal 13 settembre. Qui la nostra recensione.
Di ritorno dall’ennesimo furtarello in un supermercato, Osamu e suo figlio incrociano una bambina abbandonata a sé stessa per strada, decidendo di condurla con loro presso la loro piccola abitazione. La moglie di Osamu comincia a prendersi cura della piccola sino a quando non si scopre che i suoi veri genitori la maltrattano. Nonostante la povertà e la mancanza di legami di sangue, la piccola ritrova la felicità nel nuovo ambiente familiare. Ma un incidente fa emergere un terribile segreto.
I panni sporchi si lavano in famiglia, dicono. Eppure in Un affare di famiglia le cose non sono semplici come potrebbero essere. Da una parte ciò che è socialmente inaccettabile; dall’altra ciò che non ti scegli, ma che ancora fa attrito con le ragioni del cuore. Kore’eda, regista nipponico che continua a sbucciare i rapporti umani, in particolar modo familiari, come togliendo gli strati ad una cipolla, questa volta va tanto vicino al nucleo, alla radice più che al bulbo, che quasi si fa fatica a riconoscerlo. Il regista dei decisamente più confortanti “Ritratto di famiglia con tempesta” e “Little Sister” questa volta sembra non dare via di fuga. Grande assente è la speranza, nonostante i grandi gesti e le grandi atmosfere distese e felici costantemente in sovrimpressione.
Smossi dal loro torpore alcuni temi numinosi. Altri invece decisamente meno originali e troppo risonanti, con l’eco del già sentito. La favoletta strappa consensi dei figli che non scelgono i propri genitori (e vice versa) non l’avevamo dimenticata, né tanto meno avevamo bisogno di Kore’eda per ricordarla. D’altro canto anche l’additare lo spaventoso mostro chiamato burocrazia (legge è il suo cognome) suona tanto più originale, nonostante la smodata passione per le giurie della croisette negli ultimi anni per tali questioni sembrerebbe suggerire al contrario un forte attaccamento emotivo (politico?) al tema (vedi I, Daniel Blake). No, di interessante in questo Kore’eda c’è dell’altro. C’è anzitutto il problema di ciò che è giusto per gli altri e ciò che non lo è per me. Tema vecchio quanto la tragedia greca e la figura di Antigone più di ogni altra. Ci sono leggi non scritte che proprio non si lasciano arginare dal foglio bianco e l’inchiostro da scartoffia. Questioni che eludono giudici, tribunali ed assistenti sociali. Ragioni animose che prendono il sopravvento nei personaggi grotteschi di Kore’eda, che non stanno troppo a pensarci se devono scegliere tra una bambina congelata ed abbandonata su un balcone ed un rapimento benefico che ha il proprio culmine in un pasto caldo e un giaciglio. Più che additare il mostro, come faceva Ken Loach l’anno scorso, Kore’eda lo sfida a duello.
Ma fin qui ancora non ci siamo, anzi, siamo ancora troppo dentro. Dentro, politicamente, fino alla gola. Lontanissimo dal prendersi seri rischi (unica vera pecca del film) e non proprio coraggioso come avrebbe potuto. La scintilla di Un affare di famiglia è altrove. L’affare esiste, ma la famiglia neanche lontanamente. Scartando via tutti gli strati, Kore’eda scioglie l’incantesimo che per oltre un’ora ci tiene incollati allo schermo, affascinati da una combriccola famigliare, povera in canna, ma felice come ai tempi italiani di “Ieri, oggi, domani”. Spogli di tutti i merletti o pezze rattoppate, i personaggi adulti sono altrettanti mostri mascherati. Ladri, assassini, estorsori, giovani figlie che lasciano la scuola per il denaro facile da vetrine hot giapponesi.
Scappare sì, perché non ci si sceglie i genitori, ma per finire tra le braccia di chi non è neanche meglio.Un affare di famiglia traccia nel tempo un circolo della menzogna, alternato contrapposto e preferito a quello del dolore, preferibile al secondo solo sul breve termine. Una ricerca infantile del giusto posto in cui vivere ma senza approdo già in partenza, senza origine e fine. Distanziandosi non dal tono ma dalle intenzioni delle altre pellicole, l’autore relega il dinamismo animoso, amoroso e irrazionale, in una zona d’ombra glaciale che lascia la presa di posizione e la scelta del singolo in uno stato sclerotico. Due circoli viziosi che sommandosi originano un unico grande equivoco: l’errore e la falla nella società stessa, la discrepanza assoluta tra realtà e aspettativa dell’uomo.
Restano vive e salubri, per tecnica e intensità, le classiche atmosfere del cineasta giapponese, quelle che sembrano provenire da un universo altro e che per raffinatezza, armonia e sonorità spirituale non fanno altro che farci desiderare i tempi e i luoghi che Kore’eda mette al servizio della mdp. Questa volta però il prezzo del biglietto è alto, e il sipario finale non è una finestra sul sogno, chiusa bruscamente con le luci accese in sala, ma un sollievo quasi.
La palma si, la palma no? Un compromesso, forse, in grado di accontentare un po’ tutti. N.B. , accontentare.