Vincitore del premio Fipresci, presentato a Cannes 2015 nella sezione Un Certain Regard, Tra la terra e il cielo è il primo lungometraggio del regista indiano Neeraj Ghaywan.

Narra due vicende distinte tra loro, due frammenti di vite particolari che si incrociano per caso solo dopo aver raccontato tutto o quasi. Deepak è un giovane studente universitario che s’ innamora perdutamente di una ragazza di ceto sociale differente. Devi, una ragazza in cerca di emancipazione, scopre a caro prezzo il peso del senso comune del suo paese; e il caro prezzo in questione viene condiviso da suo padre Pathak, vittima di ricatti e pressioni da parte della polizia locale, costretto ad obbedire per salvare l’onore di sua figlia.

Se ricordate quanto scritto tempo fa sulle vie imboccate dal cinema orientale degli ultimi anni, ecco, per questo film è esattamente tutto il contrario. In questo caso la tradizione, la storia e la linfa vitale delle radici di un paese come l’india incarnano le vesti del nemico, non più qualcosa da preservare e proteggere dall’occidentalizzazione e dalla tecnologia.

Tra la terra e il cielo è, tra le tante cose che professa d’essere, una denuncia alla chiusura mentale di un paese sproporzionato, diviso tra l’industrializzazione senza freni (mostrata con un velo positivo in questa pellicola) e l’arretratezza delle periferie, dove ancora si da peso alle credenze e si ascoltano i bramini.

Non è nostra intenzione fare i faziosi e i conservatori, ma Tra la terra e il cielo è un guazzabuglio di temi bistrattati, un minestrone imbellettato da una buona prova tecnica. Se dovessimo considerare

solo i bei tramonti ripresi sul fiume Gange, potrebbe forse bastarci. Ma così non è. Dunque ci viene difficile capire come può cadere dalle nuvole un premio dato dalla critica per un film che arranca di continuo. Le due storie raccontate si incrociano sul finale casualmente, come per ridare speranza ad entrambi i personaggi che durante la proiezione abbiamo seguito, tra le loro continue sventure. Scelta discutibile e forse evitabile, dove le due vie tenute separate fino alla fine, nella vastità del microcosmo indiano, avrebbero dato una conclusione meno stridente. Per una trama come questa il “caso” non può mai essere una buona soluzione; la pena è il patetismo.

Non sgorga originalità neanche dall’idea del sacerdote indiano, una guida spirituale, portato al crollo morale per le vicende della sua vita personale, che cade nel vizio del gioco per ripagare i debiti , e che si pente e redime prima della conclusione.

Forse parliamo di uno di quei film difficili da interpretare perché di cultura diversa. Forse l’unico dovere che Ghaywan averebbe dovuto portare a termine, portando questa pellicola a Cannes, era quello di farci comprendere tutto ciò che da lontani turisti non capiamo. Forse ultimamente stiamo premiando i film sbagliati. Ma questa è una recensione scritta “a caso”, forse…