“Cobra non è” è una vistosissima parodia del genere pulp, ambientata nello squallore di una non specificata periferia italiana, che parla della notte più agitata che il giovane rapper Cobra e il suo manager Sonny abbiamo mai vissuto.
I due collaboratori, per saldare il loro sodalizio che è lì lì per sciogliersi inesorabilmente, incontrano sul loro cammino prima un avaro, grossolano produttore discografico e poi un perfido, intransigente gangster che si fa chiamare Americano, appartato in una villa dove tiene rinchiusa tra gli altri anche la sua “dama”.
Ecco un aspetto che inevitabilmente innesca una reazione distaccata: le donne della pellicola stanno nell’unico posto in cui sembra che la società odierna le collochi, cioè da parte. In fin dei conti, questa crime comedy è chiaramente ispirata ai polizieschi Made in Italy anni Settanta e Ottanta, e da allora non sono stati fatti passi in avanti; eppure, fermo restando il tentativo di parodiare i pulp e i loro inspiegabili colpi di scena (e di pistola, soprattutto), il film non per questo riesce a sensibilizzare adeguatamente sui temi che i toni esagerati, surreali dovrebbero da soli polemizzare.
Non si tratta del fatto che la critica c’è ma non si vede, perché in realtà la critica si vede benissimo, ma non c’è del tutto. Nemmeno l’impegno dei giovani attori riesce a scolpire in noi un qualche pensiero, eccezion fatta per la spavalda ma simpatica interpretazione di Teodoro Giambanco, figlio di un padre scenografo e quindi da sempre conoscitore dell’aria che si respira sui set.
È coerente il ritratto che viene fatto dell’Italia degradata dell’appena trascorso ventennio, dove è più facile incorrere in un night club di lusso che in una scuola che non cade a pezzi, in cui a fare da sfondo è uno degli ultimi metodi rimasti ai giovani disillusi per farsi “giustizia” da soli: la musica, il rap, qualsiasi base techno su cui ricamare strofe incalzanti.
È un peccato però che di poetico, in tutta questa farsa, non ci sia nulla. Non c’è lo sdegno reale che colpisce un poliziotto nel sentirsi deriso da un quasi maggiorenne, ma l’eccitazione fanatica verso un idolo grazie al quale questo medesimo pubblico ufficiale, goffo e impacciato, dice di aver recuperato la propria vita sessuale. Il rapper che celebra le donne, i soldi e le droghe è più efficace di mille preghiere, o quanto meno di mille intimidazioni rivolte dall’altra parte di un finestrino abbassato.
Gli ingredienti non sono molti: interni ed esterni che richiamano in qualche modo gli anni Cinquanta, così somiglianti alle camere da letto delle case di Barbie, musica sempre di contorno o che si interpone improvvisamente, tutta una serie di percosse chiaramente inutili ma che tutti hanno sempre voglia di giustificare come una scena vista precedentemente in un film (“come che si chiama?”).
La pregressa esperienza discografico-musicale del regista Mauro Rosso può al limite nobilitare quella che è una pulita e perfetta fotografia, esaltata dai giochi “illusionistici” che si vengono a creare soprattutto nei primi minuti all’apertura del film, quando per presentare i titoli di testa si sceglie di creare tante piccole didascalie interne andando ad “appiccicare” una scritta su un muro, o su una maglietta, anziché su un tovagliolo e, molto simpatico, sullo specchio di un bagno, nonché su una foto appesa su un filo o un bicchiere di cocktail.

Vorrebbe avere una conversazione con Audrey Hepburn, ma si accontenterà di sognarla guardando i suoi film.
Ama leggere: legge qualsiasi cosa scritta su qualsiasi superficie materiale e, se la trova particolarmente attraente, la ricopia subito senza pensarci troppo.
E fu così che iniziò millemila quaderni delle citazioni sparpagliati tutti sulla sua scrivania in disordine.