Dalla penna di Christina Hudson alla camera di Farren Blackburn. Poi c’è lei, Naomi Watts, tutti assieme in Shut In, al cinema dal 7 dicembre.

La psicologa infantile Mary Portman vive e lavora in una casa/studio in montagna, lontana dalla città. Assiste giovani pazienti e il suo figliastro diciottenne Stephen, in stato vegetativo per via di un incidente mortale per il marito Richard. La scomparsa di uno dei suoi piccoli pazienti sarà accompagnata da una serie di strani eventi in casa di Mary, seguiti da una scoperta scioccante.

Vi siete mai chiesti come apparirebbe Shining se non fosse stato scritto da King e se soprattutto se alla regia non ci fosse stato un maniaco della tecnica, genio indiscusso, come Kubrick?

La risposta arriva da Shut in.

La penna della signora Hudson, al di là della personale esperienza vissuta in una casa di montagna isolata, con tanto di rumori provenienti dalla soffitta, deve al capolavoro che è Shining tanto, forse tutto. Ma qui parliamo solo dell’ispirazione. Come prodotto derivativo, Shut In, simile al sopracitato film cult già nel titolo, sembra un mediocre remake di libera interpretazione.

C’è la casa in montagna tenuta lontana dalle comunicazioni esterne per via di una tempesta di neve, c’è lo squilibrato, c’è la donna che cerca di mettere in salvo il bambino. C’è la porta sfondata a martellate (hanno cambiato almeno l’arma), il visitatore solitario che faceva meglio a farsi gli affari suo, perfino il tentativo di rimettere i piedi sulle proprie orme nella neve per infinocchiare l’omicida. Insomma, in Shut in sembra che tutti i personaggi abbiano visto il grande film in questione e cerchino perfino di imitare Nicholson, Lloyd e la signora Duvall. La grande ed unica differenza sta nel fulcro della pellicola diretta da Blackburn, il colpo di scena che teniamo comunque in censura per lasciare al probabile spettatore un vero motivo per cui recarsi in sala.

Se la diegesi narrativa non lascia dubbi sulla “forte somiglianza”, al piano registico c’è stata qualche variazione. Non c’è la geometria perfetta, non ci sono i punti di fuga esasperati fino all’eccellenza. Blackburn, regista televisivo che si è sporcato le mani con l’episodio iniziale di Daredevil per Netflix, la puntata conclusiva della prima stagione de I moschettieri e lo speciale di natale di Doctor Who (e altro ancora), ha optato per il montaggio comune dell’horror moderno, ricco di stacchi improvvisi e i picchi sonori che tramortiscono lo spettatore ingenuo.

Non c’è luce. Gli attori si muovono in un opaco e soffuso bagliore da abat-jour suggerito dalla fotografia di Yves Belanger; una pallida e smorta costante che investe le mura della casa di montagna, vera protagonista del dramma/thriller diretto da Blackburn entro cui tutto si muove e tutto resta nello stesso punto, isolato. Bravo per lo meno nel dirigere in spazi davvero ristretti. Le posizioni psichiche dei personaggi andavano approfondite; sono state lasciate come pezzi grezzi su un bancone da lavoro, da ritoccare.

Parallelismi a parte, la confezione manca di brio, non rilascia mai la “luccicanza” che avremmo voluto trovare al suo interno. Non sarebbe corretto etichettarlo come un totale fallimento ma andava proposto qualcosa di più. Non completamente sufficiente.