Tratto da una storia vera, In nome di mia figlia è un articolo di cronaca nera filmato, una pila di giornali tradotti in film che rievocano una chimera senza punti deboli: la burocrazia.
Kalinka, figlia di André Bamberski, muore durante una vacanza con sua madre e il suo compagno Dieter Krombach in Germania. André, dopo gli esiti dell’autopsia, alimenta dei sospetti che lo portano a far aprire un procedimento giudiziario nei confronti di Krombach, il presunto assassino.
Se l’idea di partenza di Garenq fosse quella di mostrare l’asfissia della lentezza giudiziaria, potremmo parlare di risultato soddisfacente. Meno, certamente, da semplici spettatori da più genuino dramma. Sempre sottotono, il film-scartoffia è un cumulo di nozioni, lettere giudiziarie, sentenze e ricorsi. In nome di mia figlia è una biografia che dimentica di approfondire il dramma. L’importante è farsi ascoltare dalle autorità competenti. Liquidando l’angoscia con un paio di pianti isterici, il regista francese non eccelle neanche dal punto di vista tecnico. Il giallo dalle vesti drammatiche incuriosisce per una prima metà; il resto è una vera e propria telefonata allo spettatore che non aspetta altro se non i titoli di coda, dove sullo schermo nero ci saranno un paio di notizie lampo sulla fine di questi disgraziati personaggi.
Garenq confeziona una pellicola che faremmo fatica a distinguere anche tra una fiction e l’altra, in prima serata, su Tai Uno. L’unica nota di merito va a Daniel Auteuil, unico interprete sulla scena a tirare il morso e trascinare tutta la carrozza verso la conclusione. Lo stesso non si può dire di Marie- Josée Croze che avevamo già visto ( proprio assieme a Auteuil) ne Le confessioni di Roberto Andò. Non è chiaro se il ruolo della bella donna svampita, sempre un momento in ritardo rispetto altri, sia un ruolo richiesto o se sia frutto della sua (insoddisfacente) scelta interpretativa.
Pellicola che non conquista la sufficienza su nessun fronte.