Dopo aver già recensito Stay Still, esordio nel lungometraggio, cerchiamo di conoscere Elisa Mishto, regista e sceneggiatrice nata a Reggio Emilia e residente a Berlino.

Stay Still è un film prettamente femminile, dalle protagoniste fino ai rapporti con la figura materna, da cosa è nata l’idea di orientarlo verso questo genere, al di là del tuo essere donna?

Non ho mai pensato che scegliere due donne come protagoniste significasse inaugurare un nuovo genere nel cinema. Sono una donna e mi viene  naturale fantasticare su storie con protagoniste femminili, non solo come oggetto del desiderio di un uomo ma protagoniste di un’avventura, qualsiasi essa sia. Trovo però molto interessante che questa mia scelta sia stata fin dall’inizio, nella fase di sviluppo e finanziamento del film, catalogata come di nicchia (secondo l’idea che solo le donne guardano film con protagoniste femminili)  e addirittura radicale (se la protagonista è donna, deve esserci un discorso femminista alla base.) I registi uomini fanno film con protagonisti maschili da più di un secolo e nessuno gli ha mai chiesto il perché della loro scelta.

 

La tua conoscenza approfondita riguardo il mondo degli istituti di igiene mentale ti ha aiutato a definire alcuni dei personaggi, come quello di Rainer. Quanto invece c’è di autobiografico nella descrizione degli stati d’animo apatici, irresponsabili e insieme ribelli delle protagoniste?

Con Agnes condivido l’insofferenza davanti a molte delle aspettative che la nostra società ripone nelle donne e negli uomini. I corsetti di gender non lasciano spazio alle inclinazioni, temperamenti ed esperienze personali e sono spesso una ricetta per l’infelicità sia femminile che maschile. Di Julie ammiro la forza nell’essere sempre onesta e la sua ricerca esistenziale per una risposta alla domanda: se escludiamo il lavoro che facciamo, i nostri successi o i nostri fallimenti, quello che consumiamo e quello che produciamo, se insomma ci denudiamo di tutto il rumore che ci circonda, che cosa resta di noi?

 

Stay Still è un film che racconta di disturbi mentali, eppure si presenta estremamente ordinato ed elegante, identica cosa per i contrasti cromatici, musicali e scenografici. Qual è il messaggio dietro questa “pace” lì dove lo stereotipo vorrebbe urla e disordine?

L’estetica del film è definita dalla voce portante del film che è quella di Julie. Il suo è un personaggio molto controllato, preciso, elegante nella sua capacità di manipolazione, con esplosioni improvvise ma calcolate.  In ogni caso anche la realtà che ho potuto osservare all’interno delle cliniche psichiatriche era spesso tutt’altro che caotica. La vita in una clinica segue regole precise e l’atmosfera è più sonnambula che disordinata.

 

Il ruolo degli animali nel film si presenta insieme metaforico e ironico, c’è un motivo specifico nella scelta di ognuno di essi?

Ogni personaggio nel film è affiancato da un animale che in un qualche modo ne riassume l’essenza più magica: Julie e la lumaca, Agnes e la formica, Rainer e il bisonte.

 

L’ironia, seppur sottile, è un elemento palpabile e funzionale del racconto, quanto è importante preservare questo atteggiamento in una società che ci spinge verso una continua ansia da prestazione, la stessa che pervade le due protagoniste.

Sono convinta che l’ironia e il sarcasmo siano capacità che ognuno di noi dovrebbe coltivare. Ci aiutano a capire ed accettare che non siamo al centro dell’universo e che  in ogni situazione o conflitto ci sono sempre punti di vista e modi di sentire diversi dal nostro. Può non sembrare ovvio, ma l’ironia è una fondamentale forma di rispetto per l’altro.

 

Il rapporto tra Julie e Agnes ricorda quello di altri due film inerenti seppur diversissimi, come Ragazze interrotte di James Mangold e La pazza gioia di Paolo Virzì, quali registi o artisti ti hanno ispirato e ti ispirano tutt’oggi nel tuo lavoro?

Fra i classici, ci sono registi che amo molto come Hitchcock, Jacques Tati, Fellini, Billy Wilder, Sidney Lumet, Miyazaki per citarne alcuni. Ci sono poi singoli film che mi hanno molto influenzato, come ad esempio Chinatown di Polanski e Five easy pieces di Rafelson. Per quel che riguarda l’estetica del film e la fotografia, invece, non mi baso mai su altri film ma traggo diretta inspirazione dall’arte visiva. Nel caso di Stay Still, ho lavorato con alcune foto di Lartigue e Flower Vendor di Diego Rivera.

 

La colonna sonora è stata curata da Sascha Ring (Apparat), quali sentimenti ed emozioni del racconto sono stati privilegiati come base di partenza per definire il ruolo della musica nel film?

Più che da un’emozione, siamo partiti da una nostalgia che avevamo in comune: quella per le colonne sonore degli anni 90. Da ragazzina ho scoperto la musica attraverso i film e ho sempre molto amato la miscela fra musica originale e canzoni. A più di vent’anni di distanza, quando ascoltiamo Lust for life pensiamo a Trainspotting, se invece la radio suona Misirlou ci viene in mente la scena iniziale di Pulp Fiction. Era quel tipo di energia che volevo dare al film attraverso le musiche e Sascha è stato subito d’accordo con me. Abbiamo passato ore e ore a suonarci a vicenda i nostri pezzi preferiti.