Nel ventre arido del deserto di Giuda, dove le rocce rossastre si ergono come antiche sentinelle del tempo, sorge uno dei più straordinari monumenti della spiritualità cristiana. Il monastero di San Giorgio di Choziba si aggrappa alle pareti verticali del Wadi el-Kelt con la tenacia di un’aquila al suo nido, testimonianza vivente di una fede che ha saputo trasformare l’asprezza del deserto in un rifugio di pace millenaria.

Questo santuario bizantino, eretto su tre livelli scavati nella roccia viva, rappresenta una delle espressioni più autentiche dell’architettura monastica ortodossa. La sua posizione spettacolare, a soli 9 chilometri da Gerico e 20 da Gerusalemme, lo rende un’oasi di silenzio in uno dei paesaggi più drammatici della Terra Santa. Ogni pietra di questo luogo sacro racconta una storia che attraversa sedici secoli di preghiera ininterrotta, sopravvivenza e rinascita.

Le origini leggendarie nel deserto biblico

La storia del monastero affonda le sue radici nel 420 d.C., quando cinque eremiti decisero di costruire un piccolo oratorio nelle grotte naturali che punteggiano le pareti del canyon. La scelta di questo luogo non fu casuale: secondo la tradizione cristiana, proprio qui il profeta Elia trovò rifugio durante la sua fuga verso il Sinai, nutrito miracolosamente dai corvi per tre lunghi mesi.

Il passaggio da semplice eremo a vero monastero avvenne nel 480 d.C. per opera di Giovanni il Tebano, monaco visionario che trasformò l’umile oratorio in un complesso religioso destinato a diventare uno dei centri spirituali più importanti dell’Oriente cristiano. Ma fu nel VI secolo che il monastero conobbe il suo periodo di massimo splendore grazie all’opera di Giorgio il Chozibita, monaco cipriota la cui santità e saggezza attirarono pellegrini da tutto l’impero bizantino.

Un’architettura che sfida le leggi della gravità

L’approccio al monastero è un’esperienza che toglie il fiato. La struttura si sviluppa letteralmente dentro la montagna, con i suoi tre livelli che seguono le irregolarità naturali della roccia calcarea. Le celle monastiche, ricavate da grotte preesistenti, si alternano a cappelle ornate di affreschi bizantini dai colori ancora vividi nonostante i secoli trascorsi.

Il cuore spirituale del complesso è rappresentato dalla Chiesa di San Giovanni e San Giorgio, dove un magnifico pavimento a mosaico del VI secolo accoglie i visitatori con scene bibliche di rara bellezza. Le tessere policrome, sopravvissute a invasioni, terremoti e all’inesorabile scorrere del tempo, narrano episodi della vita dei santi patroni con una ricchezza di dettagli che lascia senza parole.

Particolarmente suggestiva è la grotta del profeta Elia, considerata il nucleo originario dell’intero complesso monastico. Questo ambiente raccolto, illuminato dalla luce dorata delle candele votive, conserva un’atmosfera di sacralità così intensa da risultare quasi tangibile. Le pareti levigate da secoli di preghiere custodiscono le reliquie di San Giovanni di Choziba, meta di pellegrinaggio per i fedeli ortodossi di tutto il mondo.

La rinascita dopo le devastazioni

La storia del monastero non è stata priva di momenti bui. Nel 614 d.C., l’invasione persiana di Cosroe II trasformò questo santuario in un campo di battaglia, causando la morte di molti monaci e la distruzione di gran parte delle strutture. Per secoli, il complesso rimase praticamente abbandonato, testimone silenzioso della violenza che più volte ha attraversato questa terra contesa.

La rinascita definitiva arrivò solo nel 1878, quando il patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme decise di restaurare completamente il monastero. I lavori, condotti con rispetto filologico per l’architettura originaria, hanno restituito al mondo uno dei più autentici esempi di arte bizantina in Terra Santa. Oggi, una piccola comunità di monaci ortodossi mantiene viva la tradizione di preghiera e ospitalità che caratterizza questo luogo da oltre quindici secoli.

Un trekking attraverso la storia biblica

Il sentiero che conduce al monastero è un’avventura in sé. Il percorso escursionistico si snoda lungo il Wadi el-Kelt, seguendo un antico acquedotto romano che testimonia la storica importanza strategica di questa valle. Il tragitto, della durata di circa due ore, attraversa paesaggi di bellezza selvaggia dove il silenzio è rotto solo dal fruscio del vento tra le rocce e dal richiamo occasionale di qualche rapace.

Durante la camminata, è possibile osservare i resti di antiche celle eremitiche scavate nelle pareti del canyon, testimonianza dell’intensa vita ascetica che ha caratterizzato questa regione fin dai primi secoli del cristianesimo. Ogni grotta racconta la storia di uomini che hanno scelto la solitudine del deserto come via verso la trascendenza, trasformando l’asprezza dell’ambiente in occasione di crescita spirituale.

Il panorama che si apre dalla terrazza del monastero è di quelli che rimangono impressi nella memoria per tutta la vita. Lo sguardo spazia dalle colline brulle della Giudea fino alla valle del Giordano, abbracciando un orizzonte che ha visto passare profeti, re, conquistatori e pellegrini. Al tramonto, quando la luce radente accende le rocce di sfumature dorate e violacee, il paesaggio assume un fascino quasi soprannaturale.

Tesori artistici tra sacro e profano

Oltre agli aspetti prettamente spirituali, il monastero custodisce un patrimonio artistico di inestimabile valore. Gli affreschi che decorano le cappelle rappresentano uno dei migliori esempi di pittura bizantina del primo periodo, con scene della vita di Cristo e dei santi eseguite secondo i canoni iconografici ortodossi più rigorosi.

Particolare attenzione merita l’iconostasi della chiesa principale, realizzata da maestri bizantini con legni pregiati e decorazioni in oro. Le icone, dipinte secondo la tradizione dell’arte sacra orientale, sembrano guardare i visitatori con occhi che trasudano una spiritualità profonda e ancestrale.

La biblioteca monastica, benché di dimensioni ridotte, conserva manoscritti greci e arabi di grande importanza storica, inclusi alcuni codici liturgici miniati che testimoniano la continuità della tradizione monastica ortodossa in questa regione. I monaci, custodi gelosi di questo tesoro, permettono la consultazione dei testi solo a studiosi qualificati e in particolari occasioni.

Sapori autentici della tradizione palestinese

La visita al monastero offre anche l’opportunità di scoprire la gastronomia tradizionale palestinese, caratterizzata da sapori intensi e ingredienti semplici ma di qualità eccezionale. Nei piccoli ristoranti di Gerico e dei villaggi limitrofi, è possibile assaggiare piatti che affondano le radici nella tradizione beduina e contadina della regione.

Il mansaf, considerato il piatto nazionale, consiste in agnello cotto nel jameed (yogurt fermentato e essiccato) servito su un letto di riso speziato. La preparazione richiede ore di cottura lenta e rappresenta il simbolo dell’ospitalità araba più autentica. Altrettanto caratteristico è il musakhan, pollo arrosto condito con sumac e cipolle caramellate, servito su pane taboon caldo e croccante.

Per i palati meno abituati ai sapori mediorientali, un’ottima alternativa è rappresentata dal fattoush, insalata fresca preparata con pomodori, cetrioli, cipolla rossa e pane pita tostato, condita con una vinaigrette a base di limone e sumac che dona al piatto un caratteristico sapore agrodolce.

Non si può lasciare la regione senza aver assaggiato l’hummus preparato secondo la ricetta tradizionale, servito fumante con olio d’oliva extravergine locale e accompagnato da pane fresco. La cremosità perfetta si ottiene grazie alla paziente lavorazione dei ceci e alla sapiente dosatura di tahina e aglio.

Bevande tradizionali tra sacro e profano

Le bevande tradizionali palestinesi riflettono la cultura dell’accoglienza che caratterizza questi luoghi. Il tè alla menta (shai na’na) viene servito bollente in piccoli bicchieri di vetro e rappresenta il gesto di benvenuto per eccellenza. La preparazione è un rituale che richiede tempo e attenzione: le foglie di menta fresca vengono versate direttamente nella teiera insieme allo zucchero, creando un infuso profumato e rinvigorente.

Altrettanto caratteristico è il caffè arabo (qahwa), servito senza zucchero in tazzine piccolissime e aromatizzato con cardamomo. La preparazione avviene in un apposito bricco di ottone chiamato dallah, e il servizio segue regole precise dettate dall’etichetta beduina tradizionale.

Per rinfrescarsi durante le giornate più calde, niente è meglio del tamarindo (tamr hindi), bevanda preparata con i frutti dell’omonima pianta e servita ghiacciata. Il sapore agrodolce e leggermente astringente la rende perfetta per dissetarsi dopo una lunga camminata nel deserto.

Gli amanti dei sapori più dolci apprezzeranno il jallab, sciroppo a base di datteri, acqua di rose e pinoli, servito con ghiaccio tritato e decorato con uvette e pistacchi. Questa bevanda, dall’aspetto quasi esotico, rappresenta uno dei piaceri della tavola mediorientale più autentici e sorprendenti.