La scena si presenta molto interessante: senza quinte gli attori, quando non sono in scena, rimangono sempre alla vista del pubblico; sono le luci a focalizzare l’attenzione dello spettatore sulla scena del dialogo.

Nella desolata periferia industriale di un mondo dove emergono le immagini di potenze del passato in rovina, una enorme corona sghemba si staglia sul palcoscenico.

Come un bambino pretende l’amore, Lear esige in cambio della cessione del suo potere, che le figlie espongano in parole i loro sentimenti per lui. Ma Cordelia, la più piccola, sa che l’amore, il vero amore non ha parole e alla richiesta del padre può rispondere solo: “nulla, mio signore”. È questo equivoco, questo confondere l’amore con le parole, che, nel momento in cui le altre figlie si mostreranno per quello che sono, farà crollare Lear rendendolo pazzo. E con Lear è il mondo intero che va fuor di sesto, la natura scatenata e innocente riprende il suo dominio, riporta gli uomini al loro stato primordiale, nudi e impauriti, in balia di freddo e pioggia a lottare per la propria sopravvivenza, vermi della terra. È qui che può cominciare un crudele cammino d’iniziazione: resi folli o ciechi per non aver saputo capire o vedere, Lear e il suo alter ego Gloucester, accompagnati da figli che si son fatti padri, giungeranno finalmente a capire e vedere.

“No, non piangerò. Avrei ragione di piangere; ma questo cuore si frantumerà in centomila schegge prima ch’io pianga. O matto mio, io diventerò pazzo!”