Dopo la versione storica della Madama Butterfly, la stagione operistica del Teatro alla Scala, prosegue con l’opera verdiana Don Carlo, nella variante originale in cinque atti.
Dramma tratto dal testo Don Carlos di F. Shiller, che Verdi reinterpreta in modo personale ponendo come tema centrale l’inesorabilità di un mandato divino cui le esistenze di ciascuno sono sottoposte.
Presso Fontainebleau, Elisabetta di Valois figlia di Enrico II red di Francia, viene raggiunta da Carlo, figlio di Filippo II, re di Spagna. Egli vuole conoscere colei che deve sposare per ragioni di stato. L’amore è a prima vista, ricambiato da Elisabetta. Purtroppo il fato è avverso alla coppia, e presto si scopre che la giovane non è destinata a Carlo, ma bensì al padre Filippo II.
All’interno del chiostro del monastero di San Giusto, Carlo rimarca il suo amore a Elisabetta, ma viene congedato da colei che ora è regina, lasciando il giovane addolorato e astioso. Carlo viene in seguito invitato con l’inganno dalla Principessa di Eboli, mediante una lettera anonima che egli pensa essere da parte di Elisabetta a un incontro. La giovane, gelosa e delusa, promette di vendicarsi raccontando tutto al re. La situazione viene gestita grazie al provvidenziale intervento del fidato amico Rodrigo.
Filippo sta invecchiando, e medita sulla vita e il trono, mentre il figlio è in cella dopo che in un impeto di collera ha alzato la spada contro padre. La faccenda si complica quando il Grande Inquisitore vuole a morte Caarlo e chiede la testa di Rodrigo, accusato di essere un pericoloso eretico. Due sicari uccideranno Rodrigo durante una visita presso la cella di Carlo che, approfittando di un momentaneo tumulto, riesce a fuggire e raggiungere Elisabetta nel chiostro di San Giusto davanti alla tomba del nonno Carlo V per dirle addio. Irrompe quindi il Grande Inquisitore, e Carlo sarebbe arrestato se non giungesse deus ex machina il nonno a salvarlo e trascinarlo via.
La regia di Peter Stein ci offe scene minimaliste, a tratti scarne, dalle spigolose linee geometriche e i toni freddi che lasciano un senso di inappagamento.
Plauso per i ruoli maschili di Furlanetto, Meli e Piazzola, decisamente all’altezza del proprio, difficile, ruolo. Abbiamo trovato tuttavia forse non sufficientemente coinvolgente il termine dell’aria Dio che nell’alma infondere, un’aria carica di emozione e potenza drammatica, momento carico di pathos dove Carlo e Rodrigo rimarcano la propria amicizia all’inizio del secondo atto.
Decisamente poco convincente la canzone del velo (Nei giardin del bello saracin ostello), forse l’aria più apprezzata dell’opera, nell’interpretazione di Béatrice Uria Monzon, la cui performance migliora molto nel quarto atto.
Punto forte delle opere di Verdi sono le scene corali. A mio parere, anche in questa versione di chiaro e forte impatto.
Direttore editoriale di No#News Magazine.
Viaggiatore iperattivo, tenta sempre di confondersi con la popolazione indigena.
Amante della lettura, legge un po’ di tutto. Dai cupi autori russi, passando per i libertini francesi, attraverso i pessimisti tedeschi, per arrivare ai sofferenti per amore, inglesi. Tra gli scrittori moderni tra i preferiti spiccano Roddy Doyle, Nick Hornby e Francesco Muzzopappa.
Melomane vecchio stampo: è chiamato il fondamentalista del Loggione. Ama il dramma verdiano così come le atmosfere oniriche di Wagner. L’opera preferita tuttavia rimane la Tosca.