Continuiamo a esplorare la grande musica del ‘900 trattando uno dei più importanti esponenti del cosiddetto minimalismo, e lo faremo esplorando quello che è senza dubbio il suo capolavoro, Music for Eighteen Musicians.

L’ultima volta abbiamo parlato di Zappa, la cui genialità stava nel comprendere e riutilizzare i vari linguaggi e moduli musicali in modo inedito e originale. Oggi continuiamo a esplorare la grande musica del ‘900 trattando un artista il cui estro è completamente opposto; stiamo parlando del compositore americano Steve Reich, uno dei più importanti esponenti del cosiddetto minimalismo, e lo faremo esplorando quello che è senza dubbio il suo capolavoro, Music for Eighteen Musicians. Probabilmente a sentire “minimalismo” starete già pensando a qualcosa di poco divertente: pochi strumenti che ripetono fino alla noia una traccia melodica semplice. Per questo lavoro Reich invece utilizza una formazione a dir poco sontuosa: un violino, un violoncello, due clarinetti, quattro voci femminili, quattro pianoforti, tre marimbe, due xilofoni e un metallofono. È la prima volta Reich utilizza una strumentazione così variegata, e la prima in cui ne fa un utilizzo così esplosivamente innovativo. Cosa rende questo disco così importante, una vera pietra miliare del secolo scorso? Il fatto di creare un nuovo universo sonoro.

Un giovane Steve Reich intento a sperimentare (notiamo però che la composizione della quale stiamo parlando, benché possa sembrare incredibile, è completamente acustica).

Molti artisti che conoscete e stimate sono famosi perché eccellono all’interno di certo linguaggio o genere musicale; i più glorificati sono coloro che lo innovano, o coloro che lo ampliano inserendo contaminazioni e influssi di altri generi. Pochissimi -i migliori- sono quelli che lo rivoluzionano. Ma quanti artisti che conoscete hanno inventato dal nulla un nuovo modulo? È proprio quello che fa Steve Reich qui. Musica per 18 musicisti non assomiglia, probabilmente, a niente che abbiate ascoltato prima. Fin dai primi secondi siamo immersi in un nuovo universo, con proprie regole e sistemi di riferimento; un universo dove marimbe, xilofoni e pianoforti creano un incessante, inarrestabile tappeto ritmico, che fa da sfondo a tutta la composizione; dove archi, voci, e clarinetti creano suoni profondi, vibranti e ieratici, simili a battiti di ali; un universo dove la ripetizione, e il continuo avvilupparsi e crescere delle tracce melodiche genera un stato simile alla trance, o al sogno; un universo dove tutto è ritmo, persino la voce, e di rado la durata di un nota supera la mezza battuta; un universo in continua crescita e sviluppo. Ma ora analizziamo più nello specifico quali sono le regole che rendono questo universo così suggestivo e unico; le caratteristiche che rendono speciale il linguaggio di Reich.

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Broadway Boogie-Woogie di Piet Mondrian (1942). Le sensazioni che evoca sono simili: rigore, armonia e allo stesso tempo frenetica e incessante attività.

Musica non gerarchizzata

In quasi tutta la musica che conosciamo, specialmente quella mainstream, c’è uno strumento, una traccia melodica, che domina sul resto. Spessissimo è la voce, ma può essere anche uno strumento solista (ad esempio, la chitarra in un assolo). È una caratteristica antica della musica occidentale dal rinascimento in poi: c’è sempre un qualcosa che domina, una gerarchia; il protagonismo dà senso al pezzo. Il direttore sull’orchestra, il ritornello sulla strofa, il solista sull’accompagnamento. Non è così in altre tradizioni musicali, come ad esempio quella africana: qui il musicista rinuncia alla sua identità per dare il contributo all’opera collettiva. Ed è proprio in Africa, nello specifico ad Accra, in Ghana, che un Steve Reich trentacinquenne cerca risposte. Ha già da sempre una forte vocazione al ritmo; ambisce a una musica quasi impersonale, che fluisca naturalmente, come un processo. Proprio nel breve Music as a process Reich espone le sue idee: il compositore statunitense vuole poter percepire distintamente lo sviluppo della musica, godere della struttura con chiarezza; aspira a una musica che possa essere percepita come quando appoggi i piedi sulla sabbia, vicino al mare, e guardi, ascolti e percepisci le onde seppellirli lentamente. Una musica che funga come una sorta di rituale, al cui sviluppo personale possano contribuire musicista e ascoltatore, uscendo da sé stessi e liberandosi. Ha già cercato di raggiungere questo ideale, ma le sue composizioni fino ad adesso sono austere e prive di varietà. Come abbiamo già detto, Reich ha da sempre una forte vocazione alla ritmicità, ed è qui proprio per studiare il drumming africano, e qui rimane affascinato da due elementi: la fortissima poliritmia che caratterizza la musica africana, e la figura del maestro tamburino. Il maestro tamburino è colui che gli altri musicisti seguono; quando il maestro cambia pattern ritmico, gli altri musicisti rispondono suonando figure ritmiche appropriate. Reich rimane affascinato da questa musica che si regola dall’interno, senza la necessità di un direttore, e conserva comunque una forte unità e integralità strutturale. Nel corso degli anni seguenti, riflette a lungo sulle intuizioni e le suggestioni procurate da questa esperienza. Intorno al 1964 gli appare un aiuto dal mondo onirico: il compositore sogna sé stesso e il proprio ensemble suonare in una spiaggia africana, con le onde che si infrangono vicino a loro. Da questa visione Reich trarrà l’ispirazione alla base di Music for 18 musicians.

Pulsazioni

L’esperienza africana sarà fondamentale per la scrittura del disco, che è completamente non-gerarchizzato. Xilofoni, marimbe e pianoforti (tutti strumenti percussivi -anche il pianoforte, e spesso lo si scorda) creano pattern ritmici di crescente complessità, sui quali si sostiene tutta la composizione. Del resto, le prime note sono proprio quelle della marimba, che ripetono ostinatamente un’ottava (ossia la stessa nota, ma alternando due altezze differenti); questo ruolo di “base” sarà mantenuto per tutta la composizione, che dura quasi un’ora, da vari strumenti: questa ripetizione costante rende indissolubilmente legate tutte e undici le sezioni che compongono la composizione. La base ritmica dà in un certo senso indicazioni ai musicisti su quando e come entrare, conducendo la composizione in modo armonico e non gerarchico, in modo simile al maestro tamburino della musica africana. Alla base del disco ci sono molte influenze: le tradizioni musicali orientali e africane, il jazz (Reich amava molto Charlie Parker per la sua capacità di costruire canzoni su due semplici accordi alternati), i Cantus Firmus rinascimentali, la musica modale e tonale europea; Reich da queste tradizioni trae spunti e strumenti compositivi, ma non le atmosfere e sensazioni: Reich intende costruire un nuovo linguaggio musicale, non riproporne altri in modo stereotipato. L’introduzione Pulses presenta, uno dopo l’altro, tutti gli undici accordi sui quali è basata ciascuna delle sezioni della composizione. Reich disse ai suoi musicisti di mantenere ogni accordo “finché fossero riusciti a mantenere il respiro”: ancora una volta lo svolgersi della composizione è affidato a qualcosa di automatico, di naturale, che sgorga dai musicisti stessi; una intuizione suggestiva e fascinosa. Sul paesaggio sonoro cristallino costruito da xilofoni e marimbe sorgono le pulsazioni: archi e clarinetti, nella durata di ciascun “respiro”, ripetono la stessa nota, dando un effetto vibrante e ritmico, come onde su uno scoglio, o un cuore o delle ali che battono. Queste “pulsazioni” sonore torneranno continuamente nel corso dell’opera e sono una delle sue caratteristiche più affascinanti. Affidate ai clarinetti e al violoncello, creano un effetto profondo e suggestivo; alle voci femminili, creano un vertiginoso effetto di ascensione. In ogni sezione le pulsazioni creano effetti psico-acustici profondamente differenti, che danno intensità e drammaticità alla composizione senza per questo predominare sul fluire dinamico e corale che è la musica di Reich.

Un mondo in sviluppo

Per i primi cinque minuti, sentiamo pura armonia: le pulsazioni si alternano senza creare uno sviluppo melodico, e l’atmosfera ha un che di misterioso e sospeso. Quando ha inizio il pattern di marimba che apre la Sezione I, la nostra attenzione è subito catturata. Da qui, le varie sezioni si sviluppano, esplorando ciascuna orizzonti emotivi diversi, senza che ci sia frammentazione e distacco; alcune in modo arioso e vitale, altre esplorando territori più oscuri e meditativi. La ripetitività dei pattern ritmici cristallini altera e deforma la nostra percezione del tempo, che contribuisce, assieme alla mancanza di interruzioni e frammentazione a calarci in una atmosfera di immersione e sospensione quasi onirica (il che è appropriato per un disco che ha avuto la sua genesi in un sogno). Gli strumenti si alternano nel costruire linee melodiche, creando inediti effetti psico-acustici (ad esempio, violini che vengono sostituiti progressivamente da clarinetti e voce, dando l’impressione di un unico suono che si trasforma). Spesso Reich isola linee ritmico/melodiche di una determinata sezione e parte da esse per costruire nuove melodie, dando l’impressione ipnotizzante di una musica che si auto-generi all’infinito.

Le immagini che la musica di Reich genera negli ascoltatori sono galassie in formazione, grandi stormi di uccelli e pesci colorati, batteri in sviluppo, folle di insetti operosi, paludi, foreste ed ecosistemi in inesorabile lussureggiare: immagini di qualcosa di corale, vibrante, pulsante, microscopico e in lento e inesorabile sviluppo, come la vita stessa. Il fascino di questa musica viene dal far sentire all’uomo quella risonanza di cui parla Arnold Gehelen: quell’intimo fascino che proviamo verso ciò che è automatico, organizzato e indipendente da noi, come un grande ordine che ci avvolge; un fascino che viene dal fatto che un aspetto (nascosto) della nostra natura è automatico: il respiro, il battito del cuore, il circolare del sangue, il riflesso istantaneo, l’istinto, l’inconscio. Pur essendo una musica perfetta per fare da sfondo, tende a espandersi verso di noi, avvolgerci, imporsi sulla nostra attenzione; forse perché è in grado di connettersi con una parte nascosta, intima ed essenziale del nostro animo.

Con quest’opera Steve Reich ha dimostrato che il ‘900 poteva dare qualcosa di geniale e completamente nuovo alla musica colta, ma anche che le vie della musica sono inesauribili, e utilizzando figure semplici e antiche come il mondo si può creare qualcosa di rivoluzionario e inedito. Non ho nessun dubbio che in futuro, quando gli amanti della musica si volgeranno a questo secolo, Music for 18 Musicians sarà una delle opere che considereranno immortali.