Sareste capaci di quantificare la mole di informazioni che apprendete ogni giorno? Non mi riferisco solamente alla politica e alla cronaca, i classici dell’informazione.
Ogni singola nozione, ogni minima curiosità, costituisce informazione. Anche la storia di Instagram di una vostra cugina di terzo grado dove mostra il suo pranzo in una baita in Trentino è informazione. Tornando alla domanda iniziale, dunque, su quanta informazione si posano quotidianamente i vostri occhi? Probabilmente è impossibile fornire una risposta basata su un calcolo accurato. Se mi venisse posta la stessa domanda, risponderei con un secco: tanta, forse troppa. Tranquilli, il presente articolo non costituirà un attacco, una denigrazione, del mondo dell’informazione. Non sono di certo qui ad esaltare un pomeriggio in campagna come antitesi di una maratona de La Casa di Carta su Netflix. Non ci sarà alcuna apologia del digital detox, promesso. Inoltre, anche se finora tutto lascerebbe presupporre il contrario, questo articolo riguarda la musica.
Con un paio di click siamo in grado di conoscere vita, eventualmente morte, e miracoli di qualsiasi artista abbia mai mosso i suoi passi sul Pianeta Terra. Non solo i più grandi, quindi. Il web straripa di informazioni circa l’attività di chiunque produca musica. Potete trovare la discografia di un musicista che non ha mai mosso piede al di fuori dei bassifondi di Detroit, oppure i nomi dei componenti di una band metal comparsa come un fungo nelle foreste finlandesi. Informazioni, appunto. Allo stesso modo, è estremamente facile avere accesso ai brani. Spotify, Apple Music e via discorrendo. Chi può davvero dire di poter prescindere da questi strumenti? Anche i più incalliti amanti della musica — coloro che tutt’oggi custodiscono gelosamente e ampliano la propria collezione di vinili — hanno dovuto arrendersi ai giganti del web.
Siamo bulimici di informazioni, in fondo. Quando queste ci vengono negate entriamo in cortocircuito, annaspiamo nella loro ricerca. Nell’era di Instagram, Facebook e Whatsapp nessuno può dirsi certo di non essere immortalato in qualche immagine o video che si ritrova a fluttuare nell’etere. Figurarsi gli esponenti del panorama musicale, che sulla propria immagine basano l’intera carriera diventando vere e proprie icone. Eppure ci sono delle eccezioni, uno sparuto gruppo di artisti che ha deciso di risalire il fiume controcorrente. Di loro sappiamo tutto, tranne che volto abbiano.
L’ORIGINE DEL MITO
La storia della musica è ricca di figure che hanno mascherato il proprio volto per periodi più o meno lunghi. Potrei citare i KISS, i Death SS, gli Slipknot ed infine i Daft Punk. Questi sono solo alcuni trai tanti. Eppure se dobbiamo raccontare questa storia, questo fenomeno, prima ancora che di chi produce musica è necessario parlare di chi si occupa di diffonderla.
Nel 1974 la Corte Costituzionale riconobbe la legittimità per i privati di trasmettere via cavo in ambito locale. Fino ad allora in Italia la radio era sempre stata sottomessa al monopolio statale. Di lì in poi, centinaia di radio, le cosiddette radio libere, presero a trasmettere musica. Le radio libere furono una ventata d’aria fresca sopratutto per i giovani, che trovarono finalmente corrispondenza trai propri gusti musicali e le scelte di un disc jokey. Per molto tempo i giovani si erano ritrovati costretti ad acquistare vinili provenienti da oltreoceano od oltremanica per ascoltare artisti troppo spesso trascurati, o addirittura snobbati, dalla Rai. Attorno a queste radio e agli emergenti disc jokey si svilupparono dunque interessi, passioni, persino innamoramenti. Dietro ad una voce poteva celarsi chiunque. Il non sapere chi pronunciasse quelle parole, chi scegliesse quei brani, dava adito al mistero e alla fascinazione. Era un mondo particolarmente democratico, dove l’apparenza non poteva in alcun modo viziare il giudizio degli ascoltatori riguardo la competenza del disc jokey. C’era solo la voce, i suoi accenti e la sua cadenza. Tutto, meno che il volto.
LE RAGIONI DI UNA SCELTA
Spostandoci verso i veri e propri creatori di musica, è lecito domandarsi cosa spinga un artista a mascherare il proprio volto. La prima risposta, la più sincera, collide con le più variegate spiegazioni che i musicisti interessati potrebbero fornire. Questa risposta è, dunque: farsi notare. Prendiamo ad esempio i KISS, gruppo newyorkese la cui storia è già stata raccontata sulle pagine di No#News Magazine. Agli inizi degli anni Settanta, New York (così come ogni altra città americana) pullulava di quartetti rock. La loro musica non offriva né più né meno di quella dei KISS, che attinsero più volte alle loro passate esperienze musicali nella creazione dei primi brani. La scelta dell’iconico trucco fu dunque meramente strategica, di marketing diremmo oggi. Funzionò, eccome.
La seconda ragione può essere rintracciata nella volontà da parte dell’artista in questione di salvaguardare la propria vita privata. Quando la sfera pubblica e quella privata sono nettamente scisse, poco importa se il giorno prima hai riempito lo Wembley Stadium, il giorno dopo potrai sempre passeggiare indisturbato per Camden Town. La cantante Sia, in un’intervista comparsa sul New York Times alcuni anni fa, spiegava la sua scelta di nascondere il proprio viso al pubblico affermando che: “Diventare famosi è orribile. Volevo semplicemente una vita privata”.
LE RAGIONI DI UNA FASCINAZIONE
Perché siamo affascinati da chi ci nasconde il proprio volto, dunque? Innanzitutto perché abbiamo bisogno di una verità. Quando questa ci viene preclusa non ci rassegniamo. Ascoltiamo, leggiamo, cerchiamo di carpire il più infinitesimale frammento di informazione riguardante l’artista. Chi si nasconde dietro la mascherina utilizzata da Myss Keta tempo prima che diventasse di moda? Chi è Liberato? Facciamo congetture, ci inerpichiamo per un sentiero fatto di dicerie e leggende metropolitane. Ci appassioniamo a queste storie che sono frutto della fantasia di altri. Ma nel frattempo andiamo ai concerti, compriamo il merchandising, consumiamo i dischi, acceleriamo gli streaming. In fondo il mistero ci attrae. Ce lo facciamo amico. Ci contiamo così tanto da pensare che forse, alla fine, la verità non è poi così rilevante. Conoscerla potrebbe deluderci, potrebbe far crollare i nostri castelli di carte. Sarebbe come imbattersi nello spoiler di un prequel che porterebbe razionalità ad un fenomeno che, a dire il vero, non ha affatto bisogno di un senso.
Michele Caimmi è nato a Lodi nel 1998.
Dopo un’esperienza di vita, studio e lavoro a Chester (UK) nel 2017, inizia gli studi presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, nel curriculum Politics and Economics, interamente impartito in lingua inglese. L’obiettivo, perseguito con determinazione, è quello di intraprendere la professione di giornalista.
Oltre alla passione per la politica e l’attualità, è da sempre fondamentale nella sua vita la passione per la musica con particolare interesse per le grandi band degli anni ’70, ’80 e ’90. La scrittura è la naturale valvola di sfogo per questi interessi.