Checco Zalone sta per tornare, e per pubblicizzare il suo nuovo film (“Tolo Tolo”, al cinema dal primo gennaio) sceglie non il trailer, ma la formula del videoclip; ed ecco “L’ immigrato”, una canzone che si destreggia melodicamente tra Adriano Celentano (“Il tempo se na va”) e Toto Cutugno (“L’italiano”).

La clip si porta appresso varie polemiche di presunto razzismo; se ne è parlato sul web, se ne è parlato su Quarta Repubblica, se ne è parlato sul programma della Gruber, e ovunque un politico abbia sentito il bisogno di dare la sua opinione sull’argomento.

Ma il segreto del successo della canzone, due milioni di visualizzazioni in meno di una settimana, non è solo di tipo testuale, ma anche formale.

Sono ormai una decina di anni che un certo tipo di costruzione comica non si offre più al successo del grande pubblico, per essere sostituita dal nonsense internettiano.

Protagonista assoluto Fabio Rovazzi, la cui “poetica” è abbastanza circoscrivibile: non serve una buona prestazione canora, perchè tanto il mantra è “non sono un cantante” (frase ripetuta di continuo dallo stesso Rovazzi). Il linguaggio è 2.0, infatti vengono nominati di continuo i social network e i personaggi pubblici in voga; la critica sociale è inesistente, perchè a dominare è il nonsense, il demenziale “puerile”, anche se a volte ha avuto la pretesa di eleggersi a qualcosa di più… Ma è chiaramente una forzatura vedere in canzoni come “Volare” o “Faccio quello che voglio” una missione sociale.

Stesso discorso per i dissing di Shade o le parodie dei Pantellas; per quanto le trovate a volte siano divertenti, si tratta di prodotti effimeri, destinati a essere sostituiti dopo una settimana con qualcosa di nuovo.

La forma artistica di questi prodotti artistici è purtroppo sempre molto minimale; innanzitutto durano pochissimo, non arrivano quasi mai ai 3 minuti. Sono tecnicamente molto deboli, sia nell’espressione canora che negli arrangiamenti, con suoni che sembrano usciti fuori da un telefonino piuttosto che da uno studio di registrazione. Inoltre, non ci sono invenzioni melodiche; sono sempre o parodie, o strofe reppate.

Un notevole abbassamento qualitativo e stilistico, considerando gli alfieri della canzone comica di non molti anni fa: i tecnicismi di Elio e le storie tese, le irresistibili invenzioni dei Gem Boy, la teatralità di Federico Salvatore, l’irriverenza degli Squallor.

Ma Checco Zalone, con “L’immigrato“, sembra guardare molto più indietro; a una canzone che ha bisogno della mimica e del corpo degli attori per esprimersi pienamente. A una canzone compiuta, con tre linee melodiche (strofe, ritornelli, variante) e arrangiamenti corposi, cori e parti strumentali molto curati.

La scelta musicale, formale e stilistica sono un tutt’ uno: ammiccano perciò al varietà degli anni ’70, alle esibizioni di artisti come Paolo Villaggio o Cochi e Renato.

Si parte da un’idea, ma poi non ci si ferma lì: si vuole dare una forma professionale a questa idea, nutrendola dal punto di vista realizzativo e tecnico. Una canzone comica assume maggiore valore se è ben cantata e interpretata, se il sound è convincente, se il video è realizzato da uno staff valido.

La canzone comica va presa sul serio. QUESTO è il merito di Checco Zalone. Per quanto la discussione verta (e giustamente, ci mancherebbe) sul politicamente scorretto, fa piacere vedere dei professionisti che offrono al proprio pubblico un prodotto curato, che riesca a elevarsi dal “rumore di fondo” del caos internettiano. E scusate se è poco!