Tokyo. Due uomini sono seduti al bancone di un jazz bar. Fuori fa buio; in sottofondo, musica jazz calma e soffusa.
«Ci pensi che se avessimo vinto la guerra in questo momento al posto di questo buon jazz staremmo ascoltando musica tradizionale giapponese?»
L’altro ci pensa su un attimo.
«Meno male che abbiamo perso!»
Entrambi scoppiano a ridere.
Questa scena, tratta da un vecchissimo film giapponese, illustra bene il rapporto del popolo nipponico con la musica jazz. Non è un mistero che i giapponesi ne vadano matti: Tokyo è la città con più ascoltatori di jazz al mondo, e il paese del Sol Levante rappresenta uno dei mercati più ampi e proficui per il genere. Le strade di città come Osaka e Tokyo sono popolate da Jazu Kissa, locali jazz dove sorseggiare caffè bollente mentre si ascoltano vinili antichi e rarissimi, o se si è fortunati musica dal vivo; intere generazioni di musicisti si sono formate da questo popolo, producendo dischi memorabili e carriere straordinarie. Insomma, il jazz è parte integrante della vita culturale giapponese da molto tempo, e continua ad esserlo. Ma il fatto davvero curioso è che i giapponesi si sono appropriati del jazz in modo integrale, senza compromessi.
Solitamente, ovunque il jazz diffondesse, si è mischiava inevitabilmente con la musica locale; i musicisti istintivamente rileggevano le scale e le forme del jazz mettendoci qualche inflessione nativa, suonando con il ritmo del proprio popolo, cambiando l’atmosfera emotiva e introducendo strumenti della loro tradizione. Da questi accoppiamenti meticci fra il jazz americano e il senso musicale indigeno sono nati generi ibridi come la samba, la bossa nova, la salsa, il bolero. Non così in Giappone. Nel paese del sole levante il jazz è stato considerato alla stregua di un testo sacro, calato dal cielo; un cielo abitato da dei quali Miles Davis, Thelonious Monk, John Coltrane, Billy Evans. Maestri a cui andava tributata una venerazione religiosa; per una lunga fase, gli aspiranti jazzisti giapponesi si formavano cercando di replicare perfettamente lo stile di un preciso e determinato artista. Si racconta che vi fossero perfino faide tra queste sette di appassionati: i sassofonisti che idolatravano Coltrane litigavano per ore con quelli che preferivano Sonny Rollins sulla evidente superiorità dei loro rispettivi beniamini. Il pianista Sato Misahiko ricorda addirittura che quando i musicisti giapponesi parlavano fra di loro, la domanda più comune era “tra l’altro, tu chi imiti?”. Ci volle parecchio tempo perché i musicisti nipponici superassero questo feticismo del modello. Tuttavia gli rimane appiccicato più di uno stereotipo: il primo fra tutti “I giapponesi sono bravissimi esecutori, ma non sono capaci di fare niente di nuovo”. Seguito a ruota “I giapponesi hanno una tecnica eccellente, ma mancano di spirito ed energia”. Insomma, il panorama jazz nipponico non sarebbe che un pallido riflesso della gloria dei loro maestri statunitensi, un prodotto manierato che non manca di cura quanto di autenticità. Quando io ho messo piede in questo mondo, spinto più che altro da una curiosità verso l’esotico, ho scoperto una versione completamente diversa della storia. Una versione fatta di pianoforti in fiamme, caffè bollente, capolavori perduti, folli sale da ballo, scrittori tormentati, rivoluzioni culturali, baristi fanatici che si rifiutano di abbassare il volume nonostante le lamentele di clienti e vicini, donne tenui e delicate ma di inaspettato coraggio, censura, eroina, autodidatti prodigiosi, locali misteriosi, collezioni sterminate di vinili nascosti nel fumo degli stessi locali misteriosi. Una versione che proverò a raccontarvi, ovviamente in modo frammentato e sconclusionato; altrimenti non sarebbe un articolo sul jazz). Ma partiamo con ordine.
Liquore nelle ore piccole
Non dobbiamo dimenticarci che agli inizi di tutto (siamo negli anni 20’) il jazz era qualcosa di molto diverso da quello che ascoltiamo adesso. Nelle parole del pittore espressionista George Grosz, era simile a “un’orchestra da ballo viennese improvvisamente impazzita”. Era musica che si ballava, e in modo scomposto e selvaggio. In Giappone il jazz non è arrivato come fenomeno di denuncia sociale o lotta contro l’oppressione, come il caso del bebop nero, che da lì a pochi anni avrebbe cambiato tutto in ambito jazz; per i giapponesi, al contrario, si trattava di qualcosa di meravigliosamente superficiale. In una società tradizionalista e irrigidita da una asfissiante sovrabbondanza di regole, il jazz rappresentava il fascino dell’Occidente, soprattutto degli Stati Uniti; il fascino di uno stile di vita sregolato, libero e lussuoso, che promanava dai cartelli pubblicitari e dai prodotti americani sempre più numerosi con l’intensificarsi dei rapporti fra le due nazioni. I primi protagonisti della rivoluzione jazz in Giappone non furono i contadini, gli operai o i diseredati, bensì giovani cosmopoliti della classe media delle grandi città, le cui rivendicazioni non riguardavano il riscatto sociale, bensì i divertimenti della modernità. A questi giovani interessava ascoltare musica straniera in radio, chiacchierare nei caffè, ballare sfrenatamente la sera, andare al cinema. La portata della loro piccola rivoluzione non va sottovalutata: l’aspirazione di questi dandy orientali era di fare parte della società moderna, godere di uno stile di vita libero, e diventare coprotagonisti di un movimento culturale che stava diventando mondiale.
Per rispondere a queste nuove, esplosive esigenze nacquero sale da ballo, night club e caffè (che diventarono sempre più simili ai nostri bar), ma le tre categorie finirono per sfumare e confondersi. I gestori di questi locali si resero conto che facevano molti più soldi offrendo musica dal vivo; in questo modo innumerevoli artisti trovarono impiego stabile nella nascente industria della musica. Osaka, dove tutti gli artisti migrarono dopo che Tokyo fu devastata da un terremoto, divenne il cuore pulsante, la Mecca di questa nuova generazione. Ma solo nel 1929 i giovani modernisti trovarono il proprio inno. Il regista Kenji Mizoguchi produce un film, Tokyo March, che parla delle disuguaglianze sociali del Giappone moderno; il tema principale del film è una canzone che unisce una melodia provocatorio con un testo ancora più provocatorio. Anzi, ampiamente oltre il limite dello scandaloso.
Ballando il jazz, liquore nelle ore piccole
E assieme all’alba, un fiume di lacrime per la ballerina…
La grande Tokyo è troppo piccola per l’amore
Raduni segreti nell’Asakusa modaiolo…
Ragazzi marxisti dai cappelli lunghi, l’amore effimero dei momenti…
Guardiamo un film, beviamo del tè, o scappiamo piuttosto
sull’Odowara Express?
È la prima volta che il termine jazz diventa di dominio pubblico. E a quanto dice il testo, è il sottofondo di libertinaggio, immoralità, addirittura attività illegali (il marxismo in Giappone era stato soppresso nel sangue). In Giappone si diffonde una ondata di panico: questa glorificazione della vita notturna di Tokyo, incubo dei genitori, sembra preannunciare l’apocalisse. Alcune radio si rifiutarono di trasmetterla per “proteggere i ragazzi in età scolare dalla sua influenza immorale”. Ma nonostante la psicosi dei conservatori e le censure, il jazz resterà in buona salute. La crisi del 29’ non sembra affatto scalfire l’elevata affluenza ai cafè e alle sale da ballo. Con la sconfitta nella guerra mondiale, il jazz in Giappone riceve un ulteriore impulso: i soldati americani in guarnigione richiedono musica jazz, e assoldano musicisti locali. Se la maggior parte degli ufficiali richiede musica semplice e ballabile, qualche ufficiale di colore particolarmente lungimirante richiede qualcosa di più moderno e sofisticato, come il bebop che i musicisti nipponici adorano: mentre infatti negli U.S.A. la grande stagione del jazz è ormai passata, il Giappone invece il genere ha concluso la sua fase modaiola e adolescenziale, apprestandosi ad entrare nell’età dell’oro.
Jazu Kissa
È da parecchio tempo che noi occidentali siamo abituato ad ascoltare musica nel nostro stanzino. Ai tempi dei nostri genitori, e prima ancora, era piuttosto facile procurarsi un disco americano o inglese, anche molto recente, e ascoltarlo comodamente sdraiati sul divano. In Giappone non era così; i dischi americani scarseggiavano, e questo era un problema per un paese affamato di musica nuova, e non schizzinoso neppure nell’ascoltare le cose più strane. Per questo i cafè che avevano infuocato l’età precedente si trasformano: diventano più rilassati, sofisticati, intimi. In questi locali, che costellano numerosi le strade delle grandi città, gli appassionati si radunano per ascoltare, davanti a una bevanda calda, l’ultima uscita. Il ritrovarsi al Jazu Kissa, al caffè jazz, diventa un rito; lo scoprire nuova musica, una attività collettiva. Il Kissa è un posto per chiacchierare, leggere libri, fumare, parlare delle novità musicali d’oltreoceano, ascoltare canzoni da un vinile e quanto si è fortunati, gustare musica dal vivo.
Col passare dei decenni gli ascoltatori di jazz sono diminuiti, e le kissaten con loro. Ma in quelle rimaste -che sono ancora centinaia- si è fermato il tempo. Dopo tanti anni passati a collezionare dischi questi locali fumosi ed elusivi sono diventati veri e propri archivi, che comprendono dischi rarissimi o dimenticati. Inutile dire che sono luoghi permeati di nostalgia, e forse è per questo che in esse si manifestano personaggi che sembrano venire da altre epoche. Leggere le descrizioni di questi bar apre davvero uno spiraglio su un mondo misterioso e dimenticato: è il caso dello Charmant, che viene aperto tre notti alla settimana da un barista pazzo che urla “One!! Two!! Three!! Four!!” all’inizio di ogni assolo, rifiutandosi pervicacemente di abbassare il volume; o, per un’atmosfera completamente opposta, al Paper Moon, dove la musica calma e il vento che spira dalla grande finestra crea un’atmosfera meditativa e solitaria; del Corner Pocket, dove puoi chiacchierare di musica col barista in persona, e del Old Wild Cat, dove lavorava, da giovane, il grande Haruki Murakami, lo scrittore ossessionato dalla musica (in Kafka sulla Spiaggia il vocabolo “musica” ricorre ben 93 volte). Gli dovette piacere quel lavoro, perché, più tardi, fondò un jazz bar tutto suo.
Il pianoforte in fiamme, l’annaffiatoio, il Santo Graal
Potrei raccontarvi molte storie ambientate in questo mondo. Una delle più famose è quella che vede Yosuke Yamashita, virtuoso del piano e grande innovatore della scena giapponese, che suonare su una spiaggia, improvvisando su un pianoforte che va a fuoco; una bella metafora del jazz stesso, che si consuma e si deforma man mano che lo si suona. Ma la storia che mi piace di più è quella di Toshiko Akiyoshi, figlia di una famiglia rovinata dalla guerra mondiale, che si guadagnava da vivere, giovanissima, nei dance hall dei quali abbiamo abbondantemente discorso sopra, suonando il piano. I genitori inizialmente si opposero a tale scelta di carriera, dichiarando che a marzo, ricominciata la scuola, si sarebbe dovuta licenziare per proseguire gli studi. Ma quando marzo venne, dovettero essersene scordati, perché Tokisho continua a suonare. Ma è solo quando un ammiratore, fervido collezionista di vinili, le fa ascoltare Sweet Lorraine suonata da Teddy Wilson che consacra la propria esistenza al jazz. “Un giorno riuscirò a suonare così”, si promette; e non sa quanto il destino le darà ragione.
Quando si trasferisce a Tokyo nel 52, fonda una sua band e comincia a diventare famosa; presto viene scoperta dal pianista Oscar Peterson, che la definisce “la più grande pianista di jazz di sempre”. Grazie all’intercessione di Peterson riesce a studiare al Berklee College of Music, una delle accademie musicali più prestigiose al mondo, ed è la prima diplomata di origine giapponese. Comincia a esibirsi per la televisione americana, sempre indossando il caratteristico kimono. Al pubblico dovette sembrare qualcosa di incredibile -un musicista jazz donna, così giovane e per di più giapponese! La storia di Toshiko, in effetti, è un continuo affermarsi su pregiudizi della sua epoca. Lei si trovava spesso come unica donna, a gestire un big band, tutti poco intenzionati a farsi comandare da una donna. Per aggirare questa asperità, Toshiko usa molta diplomazia, mischia gli ordini ai complimenti, cerca di presentare le direttive come consigli. E nel frattempo produce assoluti capolavori. Su di tutti Kogun (“esercito di un solo uomo”, riferimento alla storia di un soldato giapponese che era nascosto nella giunga di un’isola quando la guerra finì, e per trent’anni, continuando a credere che fosse ancora in corso, rimase leale all’imperatore) dove Toshiko dà prova di un virtuosismo compositivo impressionante: l’album riesce contemporaneamente a suonare seducente e sperimentale, sofisticato ed emotivo; le composizioni sono un susseguirsi di soluzioni ardimentose e originali, che riescono sempre a sorprendere l’ascoltatore (qui potete avere un assaggio). Nella title-track c’è anche una forte influenza di musica tradizionale giapponese: una scelta molto coraggiosa per l’epoca. Le conquiste di Toshiko risultano ancora più sorprendenti quando scopriamo che nella sua vita privata era una donna tenera e delicata, “una moglie vecchio-stile”, si definisce ironicamente. Amava tantissimo la vita domestica e familiare, al punto che prima di partire in tour con il marito (anche lui musicista), afferrò un annaffiatoio di plastica dal giardino gridando che “Ne aveva bisogno”, e se lo portò in tour assieme agli strumenti. Mrs. Toshiko era decisamente una donna particolare.
Ma il musicista che avrò sempre più caro nell’ambito della musica nipponica è senz’altro Ryo Fukui. Pianista autodidatta, iniziò a imparare a suonare quando aveva ventidue anni. Ad ascoltare cosa riesce a fare solo sei anni dopo col suo quartetto, nel capolavoro Scenary (1976), c’è da non crederci. L’album è suonato con una tecnica prodigiosa, che alterna momenti di bebop puro a lirismi e fraseggi calmi. Il pezzo più bello è sicuramente Early Summer: è una composizione davvero stranissima, soprattutto per le sensazioni che trasmette; ha un che di afoso, euforico, elegante, ma con un qualcosa di sarcastico, addirittura esilarante, e di sospeso. Dopo il potente riff di piano l’atmosfera si surriscalda, il tempo diventa velocissimo, e Fukui si lancia in un assolo spericolato, quasi isterico, senza mai perdere la classe e la pulizia tipiche del suo stile. Nel frattempo continuava a fare concerti allo Slowboat, il suo jazz club, lasciando testimonianze memorabili come il magnifico live A Letter from Slowboat.
A dire che fino a pochi anni fa, il suo lavoro era quasi sconosciuto in Occidente. Solo quando Scenary fu postato su YouTube nel 2016 ci si rese conto di quanto fosse straordinario. Proprio mentre la sua opera stava ottenendo il riconoscimento che meritava, Fukui morì a causa di un linfonoma, esattamente tre mesi e dieci giorni dopo che il Scenary finì su internet. Mentre il suo fenomeno esplodeva, ci si rese conto che uno dei suoi dischi, My Favourite Tune, nel frattempo era diventato praticamente introvabile. Nacque una sorta di mito attorno al disco: si sapeva che esisteva, ma nessuno sapeva cosa ci fosse dentro. Era diventato una specie di Santo Graal del jazz giapponese.
A questo punto entra in scena Marcel the Drunkard, proprietario di canale YouTube che si occupa di diffondere musica jazz e fusion, con il quale ho potuto scambiare qualche parola a proposito di questa gemma perduta. Marcel, come molti altri aveva scoperto Ryo Fukui da pochissimo ed era rimasto affascinato dalla possibilità che esistessero capolavori dimenticati di questo pianista così a lungo rimasto nell’ombra. A Marcel dobbiamo la diffusione su internet di A Letter from Slowboat, giratogli da un appassionato giapponese. Dopo qualche indagine scoprì dell’esistenza di questo album perduto, di cui si conosceva solo la copertina. Cominciò dunque la sua ricerca: indagò nei forum di appassionati, nelle comunità su reddit, chiese ovunque su internet. La ricerca gli impiegò un mese, e quando fu sul punto di arrendersi gli arrivò un messaggio: un appassionato aveva notato le sue ricerche, ed era riuscito a mettersi in contatto con la vedova di Ryo Fukui, che gli inviò personalmente una copia dell’album, perché Marcel potesse diffonderlo nuovamente e renderlo eterno. Posso solo immaginare l’emozione di Marcel nel sentire quelle note dimenticate che nessuno sentiva da decenni. Attualmente Marcel è l’unico possessore conosciuto di My Favourite Tune, ma da vero benefattore quale è ha rispettato la promessa fatta alla vedova di Ryo, mettendolo a disposizione di tutti.
È un album particolare: compaiono solo un uomo e il suo piano, senza batteria e contrabbasso e distrarre. C’è una versione meravigliosa di Mellow Dream, che sacrifica la drammaticità dell’originale a favore di un feeling diverso: una sensazione sottile di dolore, malinconia e disincanto, nella quale trova spazio qualche momento sognante. Insomma, è uno di quegli album che rendono manifesto il fatto che il Giappone merita il suo titolo di provincia del grande impero del jazz.
La via dell’arte
Non ha senso parlare di un jazz giapponese. Proprio per aver così fortemente assimilato i modelli di quello americano, i musicisti giapponesi non hanno delle specificità così forti da poter parlare di un genere autonomo. Piuttosto, si può parlare di una scena giapponese, che ha prodotto artisti e personaggi unici. E soprattutto, ha senso parlare di un approccio giapponese al jazz; un approccio originale e unico che dà senso e valore a tutti i dischi e le carriere nate sotto la bandiera del Sol Levante, sottraendoli ai pregiudizi che li vogliono imitatori ed esecutori senz’anima. Leggendo la parte iniziale di questo articolo, potreste esservi chiesti: “Perché in Giappone è il jazz si è imposto in maniera così pura, non mischiato con influenze e contaminazioni?”. La risposta ha radici profonde nella cultura nipponica. Innanzitutto, i giapponesi hanno una fortissima senso della forma. Il jazz è un genere facilissimo da imitare superficialmente, ma è estremamente difficile comprenderne le caratteristiche strutturali e linguistiche: in Giappone invece quasi tutti i musicisti ne hanno colto in modo lucido e preciso gli aspetti formali. Questa grande qualità viene dalla loro educazione musicale, che è molto più teoretica e legato alla composizione. I giovani allievi vengono abituati fin da subito ad ascoltare moltissimo, e capire perché ciò che ascoltano procura un determinato effetto piuttosto che un altro; imparano fin da subito a riconoscere le differenti scale, le tonalità, gli accordi, i differenti linguaggi. È un approccio più accademico del nostro, che punta soprattutto a fare emergere la creatività degli studenti e insegnarli a fare musica con naturalezza, come se fossero nati per farlo. Del resto, è una delle differenze cardine fra i due mondi: l’occidente mette sul piedistallo l’individuo, mentre l’oriente la scuola e la tradizione.
Ma perché proprio il jazz? Certo, il linguaggio formale del jazz è intrigante e complesso, in grado di soddisfare il sofisticato senso formale dei giapponesi. Anche qui, torniamo su un aspetto antico della cultura giapponese; una categoria estetica esclusivamente nipponica che si chiama geido, “la via dell’arte”. Noi occidentali siamo abituati a pensare all’opera d’arte come un qualcosa di autonomo rispetto al modo in cui è stato prodotto. Ciò che conta è il risultato, non il processo; se una strada ci porta più rapidamente al risultato, sarà quella che sceglieremo. Non abbiamo bisogno di vedere Monet dipingere per apprezzare i suoi quadri. Non così in oriente: qui, al contrario, è il processo a definire l’opera. Il caso più eclatante è la cerimonia del tè, un rituale di incredibile complessità e sottoposto a innumerevoli variazioni causate dai fattori più disparati, come la stagione in corso, o la forma degli utensili. Guai a dire “Si, ma alla fine sempre te rimane”! Preparazione e fruizione sono indissolubilmente legate, e la strada più rapida non è mai la migliore. Il jazz ha qualcosa di simile: è una musica con un fortissimo elemento improvvisativo, e dunque richiede che il musicista possieda intuito e competenza per portare avanti una performance ispirata. L’uso di accordi difficili, aumentati o diminuiti, condito con l’abbondanza di semicrome e ritmi irregolari, pone grosse sfide compositive per il musicista che si accinge a far scorrere un brano.
Se il jazz si limitasse a sovrapporsi a certe caratteristiche culturali dei giapponesi, non se ne spiegherebbe però perché il suo fascino sia così longevo e virulento. Io personalmente credo che pur adattandosi così bene alla mentalità nipponica, il jazz contenga già ciò che la supera. Il jazz soddisfa la sensibilità giapponese per la forma, ma allo stesso tempo la confonde con le sue piroette melodiche, i suoi sbalzi ritmici, le sue dissonanze; gli pone di fronte a qualcosa di proceduralmente complicato e nello stesso momento gli lascia la libertà totale di condurre la canzone nella direzione che preferiscono, senza che ci siano prescrizioni o regole a tracciargli il sentiero davanti. Forse è proprio questo il punto; per una cultura così legata a norme, obblighi e convenzioni, per un popolo sul quale pesa la terribile difficoltà di non riuscire a esprimersi, di non poter comunicare in modo autentico la propria interiorità, il jazz rappresenta l’elemento incontrollato, che gli intriga e gli sfugge; rappresenta l’amore per ciò che è complesso e raffinato, ma al tempo stesso selvaggio e istintivo; rappresenta un anelito verso la libertà, verso l’espressione pura e sregolata. Un chiavistello per il chaos.
Voglio dedicare questo articolo a gente come Marcel, e soprattutto alla signora Fukui, che ha reso immortale la musica di Ryo; a tutti coloro che, in ogni angolo del mondo, tengono viva la fiamma inestinguibile del jazz.