Oggi ci guarderebbe con tenerezza, marito e figlia, così soli al primo banco, ognuno con la propria pena chiusa nel petto. Ci prenderebbe le mani per confortarci. Provo a immaginare il calore della sua stretta.
È stata una delle ultime volte che abbiamo riso così. La nostra giovinezza stava per fermarsi e non ne sapevamo niente. Restituisco silenzio a silenzio.
E mi vedo io, sola. Mi manca una confidenza, l’intimità delle piccole cose quotidiane. Sedere a tavola uno di fronte all’altra, trovarsi con lo sguardo. È questo l’amore che non ho più. È diventato nostalgia.
In fondo i posti non hanno colpe. Sono passati quasi trent’anni. Tutto è evaporato, trasformato, scomposto. Anche la natura dimentica. Ricresce su tragedie e disastri.
Allo specchio schizzi di acqua e sopra la mia faccia cambiata. Una notte di fine estate mi portava di colpo nell’età adulta. Non c’era niente di sicuro di là. E io stavo passando ciò che mai avrei dimenticato. A un certo punto la vita accelera. Dopo resta tutto fissato a un’immagine, un suono del momento. Si torna sempre lì.
Eravamo giovani, ma non invincibili. Eravamo fragili. Scoprivo da un momento all’altro che potevamo cadere, perderci, e persino morire. Per mio padre era il posto più sicuro al mondo. Più dell’autobus affollato. Invece l’aveva tradito il suo bosco. Si è voltato, incredulo. In quelle ore aveva perso tutte le sue certezze.
A tutte le domande che non mi erano uscite di bocca ha risposto con una lunga lettera, all’inizio della sua vita lì. La conservo ancora tra le mie carte, scampata a tutti i traslochi. Era sopravvissuta, ed ero sopravvissuta anch’io. L’ombra che l’aveva investita, e aveva sfiorato me, ci aveva lasciate in silenzio. Ma quella lettera era necessaria, per me e per lei.
Il silenzio con cui ti rispondono i figli ormai adulti; il senso del dovere verso il padre anziano rimasto vedovo, l’attaccamento al luogo natìo e l’incapacità di lasciarlo per un posto nuovo forse per timore di non esserne all’altezza, per abitudine o perché l’incertezza fa paura e la quotidianità è rassicurante.
Un misto tra Fontanamara di Silone e il diario di una madre dei nostri giorni, una madre che a un certo punto si ritrova difronte al silenzio della figlia ormai adulta con i suoi sogni, le sue paure, le stesse incertezze che forse ha vissuto la madre, tutto uguale e allo stesso tempo tutto diverso in una ciclicità che non è mai uguale.
Il divorzio dal marito, l’incapacità di mettere al primo posto i propri sentimenti e trincerarsi al senso del dovere verso un padre anziano, il dolore ancora non superato per la morte della madre, il passato che non è del tutto passato che ha lasciato una ferita e un vuoto così profondo da non riuscire a parlarne nemmeno con l’amica coinvolta, quell’amica che nel pieno della giovinezza ha vissuto sulla propria parte di una tragedia che ha sconvolto l’intero paese.
Chissà cosa spinge una vittima a prendere in mano la propria vita e trarne il meglio mentre chi non l’ha vissuta rimane ferma lasciando che il tempo scorra tutti i giorni allo stesso modo, con gli stessi gesti e le stesse abitudini.
Come sempre la penna della Di Pietrantonio non delude.
L’età fragile
di Donatella Di Pietrantonio
Einaudi 2024