Talvolta il nostro errore è non usarle, più spesso è adoperarne troppe e pure di sbagliate. Con le parole si può giocare, ma con le parole non si scherza. Sono roba seria. Infatti, possono ferire, uccidere, unire le persone, quanto dividerle, determinare il successo o anche il fallimento. Le parole sono libertà: di contro, la loro proibizione, è tirannia.
Il politicamente corretto impone di scagliarsi contro il maschio, di graziare a prescindere la femmina, considerata sempre vittima, di etichettare come fascista o razzista e omofobo ….. Populista è diventato vocabolo ingiurioso. Popolo, dunque, dovrebbe essere una parolaccia.
A volte mi sorge il sospetto che ciò a cui punta realmente la sinistra sia una sorta di sterilizzazione della lingua volta ad anestetizzare la società intera dalle emozioni cui rimandano automaticamente determinate parole. E le emozioni – si sa – fanno paura a chi non è in grado di provarle o di viverle. Qui i diritti non c’entrano un bel niente. La messa al bando di certi sostantivi non realizza e non garantisce alcun diritto, essa semmai è repressione della libertà di parola, un oltraggio alla libertà di espressione.
Il linguaggio ormai è un terreno minato, non sappiamo più come muoverci, a ogni respiro, a ogni sillaba, a ogni esclamazione rischiamo di saltare in aria, quantunque le nostre intenzioni fossero buone.
Il riconoscimento del merito, dunque, rappresenta un incentivo a tirare fuori il meglio di sé. Del resto, come disse lo scrittore calabrese Corrado Alvaro, «la disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile.» Qualcuno sostiene che l’introduzione del criterio del merito a scuola possa indurre gli studenti a diventare tra loro competitivi. Anche in questo caso rilevo che la competizione non è qualcosa di negativo, piuttosto essa costituisce la molla che spinge l’individuo a estrinsecare tutte le sue potenzialità e innalzarsi.
Sono scettico riguardo all’idea, sostenuta da illustri intellettuali, secondo la quale cambiando le parole, eliminandone alcune, trasformandone altre, possiamo modificare il pensiero segnando una evoluzione civile e culturale.
Un libro che andrebbe letto per capire che le parole hanno il potere solo quando noi glielo diamo, non è la parola in sé che ferisce o gratifica oppure giustifica, è il tono con cui viene pronunciato, il contesto nella frase in cui viene inclusa.
Tutto, dal linguaggio, alla natura è donna e uomo e viceversa, sono la metà esatta dell’uno nell’altra, ad esempio la carota è femminile ma contiene il carotene di desinenza maschile. Chiamare con l’appellativo donna o uomo non è denigratorio ma lo è se la “parola” viene pronunciata per offendere.
Vittorio Feltri con il cipiglio e la polemica che lo contraddistingue non ha torto a dire che la prima avvisaglia di un potere totalitario è proprio nel proibire l’uso di alcune parole, Orwell insegna.
Il politicamente corretto vieta di distinguere sui documenti ufficiali (dalla scuola passando per i documenti identificativi), per i minori di 14 anni tra mamma e papà omologando il tutto tra genitore 1 e genitore 2. Chi sarebbe il genitore 1 e chi il 2? Cosa c’è di sbagliato nel chiamare “mamma” o “papà” il proprio genitore? Stiamo veramente rasentando l’assurdo?
Buona lettura a chi ha voglia di capire a fondo che non sempre è sbagliato pronunciare una determinata parola e come dice Feltri: il politicamente corretto applicato al linguaggio è il male del secolo, ed è giunto il momento di dire basta, di tornare a parlare come mangiamo.
Fascisti della parola
di Vittorio Feltri
Rizzoli 2023 (199 pp.)