Lo conosciamo per “Drive” e “Solo Dio perdona”, il noto regista Danese che ha passeggiato sulla Croisette presentando la sua ultima pellicola: The Neon Demon.
Jesse giunge a Los Angeles, seppure minorenne e orfana, per inseguire il suo sogno: diventare una modella. Supportata da un suo giovane ammiratore e fotografo, Jessy approda sulle vette di quel mondo in cui la bellezza è l’unica padrona. Costretta da subito a combattere per il suo posto, possedendo la benevolenza di questa dea dell’esteriore, conquista l’invidia delle sue rivali.
Analizzare questo film è un’ operazione assai complessa. Senza dare la giusta attenzione a tutti i 117 minuti si rischia di accartocciare il progetto intero e gettarlo via, come qualcosa di decorato ed indecoroso allo stesso tempo; come un film che va oltre la mediocrità, verso l’oblio.
The Neon Demon è superficialità che tenta di smascherare il superficiale. Un bel pacco regalo, con fiocco, pellicola e brillantini che al suo interno cela il grande male di sempre: il nulla. Difficile è capire se questo nulla sia il risultato di una pellicola imbarazzante o il pregiato prodotto ottenuto e voluto da Refn, risultato ricercato con coraggio, mettendosi contro l’intera critica perfino; in questo secondo caso dovremmo semplicemente toglierci il cappello e fare un inchino ad un genio senza precedenti.
Con una sceneggiatura che fa acqua un po’ ovunque ( è un vero e proprio scolapasta) e didascalismo spicciolo dietro ogni angolo, risalta all’occhio il colore, la luce a neon, la fotografia umida di base e tutto ciò che può esistere in un film di estetico. Il film è una pura celebrazione della bellezza anche dal punto di vista tecnico. La vista è riempita, intasata, ingrassata dalle immagini con cui Refn compone il suo film. Dai corpi perfetti delle modelle a chi questi corpi sa prepararli e metterli in esposizione. Il regista Danese possiamo intenderlo come un macellaio, con giacca, cravatta e capelli incerati, ma pur sempre un macellaio.
Il film procede lentamente per una buona metà e anche più, poi si tuffa in dinamiche strane, coraggiose, a tratti davvero evitabili. Un rapporto sessuale con un cadavere, un omicidio, e come l’ultima ciocca di capelli sistemata sulla spalla di una modella prima della sfilata, una conclusione incorniciata dal cannibalismo.
Inutile è continuare ad elogiare l’estetica del film, perno dell’intera confezione senza la quale avremmo già liquidato la faccenda. Dopotutto, prendete la storia di Elisabetta Bathory ( regina sanguinaria che faceva bagni con il sangue di giovani vergini per acquisirne la bellezza) e impiantatela nell’era moderna con un film, se possibile con una montagna di neon: il risultato non sarebbe troppo distante.
Al di là della scarsa originalità siamo costretti comunque a porci il dubbio: Refn ha voluto davvero trattare con superficialità la superficialità per antonomasia? O non ci resta che giudicare esclusivamente la vuotezza di questo suo culto estetico di cui si è fatto sacerdote, come con qualsiasi altro film macchiato falsamente d’autorialità?
Ci si divide, non possono esistere mezzi termini. Ritenendo più che positivo il fatto che di un film del genere si possa parlare, e perfino formulare dubbi, da parte nostra bocciamo la confezione di Refn. Affascinante il bivio su cui ci pone, volutamente o meno, tuttavia vanno presi in considerazione anche gli eccessi, in questo caso plurimi, che il film incrocia sul suo cammino. Della superficialità, il cannibalismo e la necrofilia, non sanno proprio cosa farsene.