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#Mountain, l’angolo dei vivi

#Mountain, l’angolo dei vivi

Presentato nella sezione Orizzonti al 72° festival di Venezia, primo lungometraggio della regista israeliana Yaelle Kayam, Mountain è un film coraggioso, un dramma che contrappone due mondi differenti.

Tzvia, suo marito e i suoi quattro figli vivono a Gerusalemme, in una casa costruita sul monte degli ulivi, ai margini del cimitero ebraico. Questi “vivi” hanno ritagliato il proprio angolo tra i morti, come racconta Tzvia a coloro che non comprendono la scelta di vivere in un posto così poco convenzionale.

La vita della protagonista è monotona e ripetitiva. Si sveglia, osserva suo marito pregare, prepara da mangiare, si preoccupa per un topo che si aggira nella sua cucina, fa recitare le preghiere ai suoi bambini e, quando nessuno la vede, si concede una sigaretta, piccola evasione della sua ciclica esistenza. Durante una di queste sue fughe notturne, Tzvia fa caso alla presenza di una prostituta ed un uomo appartati tra le tombe. Da questo momento in poi la vita di Tzvia si sdoppia: da una parte la vita di sempre, con i figli disobbedienti e un marito sempre impegnato che non ha neanche più voglia di toccarla; dall’altra parte le prostitute e la combriccola dei loro clienti. Esistenze tanto differenti dalla sua, vivi che si mostrano per quel che sono. I problemi di Tzvia si manifestano quando i due emisferi minacciano di interagire tra loro, distruggendo gli equilibri precari della sua nuova doppia identità.

Le profezie dicono che il monte degli ulivi si dividerà al ritorno del messia. Per Tzvia quest’orizzonte non è lontano e mistico, ma attuale. Il monte su cui vive è diviso esattamente in due parti, raccontate bene dalla regia della Kayam, dal punto di vista tecnico impeccabile. Ottima è l’interpretazione di Shani Klein che, dopo Zero Motivation, sembra volersi ritagliare un posto in un cinema più serio.

Tuttavia, Mountain è un film che va preso con le pinze. La pellicola è sempre in bilico e scorre sui bordi scivolosi di un crepaccio che miete molte vittime tra coloro che vogliono sorprendere e sconvolgere. La Kayam trattiene di continuo la tensione per poi liberarla per brevi istanti; scene-coltello dalle lame non troppo affilate a dire il vero. La monotonia della vita di una donna reclusa sulla soglia di un cimitero ci viene riproposta fin negli ultimi minuti, spezzata dalle escursioni notturne della protagonista all’interno di quello spazio oscuro, sudicio ma seducente, dove ascolta i gemiti delle prostitute e sfama i loro clienti. Il tutto tra le lisce e bianche lastre in pietra delle tombe. Una scelta dettata dalla furbizia il macchiare la sacralità dei luoghi con coiti e profilattici usati che Tzvia tocca con le dita (scene che ricordano vagamente Haneke) e che di continuo suscitano reazioni di disagio nello spettatore.

Il finale di Mountain fa sorgere dubbi, ci lascia perplessi. La conclusione scelta per questo film pare ingiustificata. Due pentole e veleno per topi . Il percorso mentale che porta all’epilogo distruttore è privo di solide basi, non è stato elaborato a dovere, pare gettato a caso. Le misure prese sembrano superare e triplicare lo svolgersi dei fatti. Tzvia scopre un nuovo lato di sé, sfumatura con cui lei stessa entra in contrasto. Ma questo noi possiamo supporlo solo quando lo schermo si fa nero, partono i titoli di coda e facciamo il resoconto di chi è ancora in vita. Nessuno.

Se tra Davide e Golia si preferisce Golia, come si racconta del figlio di Tzvia, bisogna comprendere le conseguenze della propria scelta. La Kayam li sceglie entrambi, o nessuno dei due. Scelta semplice ma giustificabile. Mountain resta una buona opera prima e ci auguriamo che la regista israeliana ci proponga al più presto una nuova pellicola, meno furba e più sincera.

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