La persona peggiore del mondo è un film di Joachim Trier con Renate Reinsve, Anders Danielsen Lie e Herbert Nordrum.
Della sua distribuzione in Italia, prevista per il 18 novembre, si è occupata la casa di distribuzione Teodora Film.
La storia, che è scandita in dodici capitoli, è incentrata sulla vita di Julie, giovane trentenne con una forte crisi esistenziale: la sua interpretazione è valsa alla norvegese Renate Reinsve la Palma d’oro per la Migliore interpretazione femminile nell’ultimo festival di Cannes.
Julie è figlia di due genitori divorziati: vive a Oslo con la madre, che veste anche i panni di una sorella maggiore sempre pronta a confortarla senza esprimersi troppo severamente sulle sue scelte di vita. Julie, infatti, è nel bel mezzo di una crisi d’identità a causa della quale non sa bene cosa fare nella sua vita, e ogni giorno partorisce un’idea diversa sull’aspetto che intende dare al suo futuro.
Dapprima iscritta in Medicina, presto si convince che è dalla mente – e non dal corpo umano – ad essere veramente attratta. Quindi passa a Psicologia, ma presto anche questa nuova branca sembra causarle parecchie noie. La scelta ricade poi sulla Fotografia, il che tuttavia non significa che la ragazza è ormai totalmente appagata.
Julie infine imparerà a mettere ordine nella sua vita professionale non interpellandosi a un consulente di carriera, ma scoprendo l’amore. Pertanto, la sua vita privata sarà plasmata dell’educazione sentimentale a cui lei stessa non avrebbe mai immaginato di dover ricorrere, un giorno.
Sul film di Trier la stampa si è subito espressa in toni più che ottimistici: per il Guardian, Peter Bradshaw sottolinea che il film è già “un classico”, lodando la lungimiranza del regista in quanto “ha finito per creare qualcosa di incredibilmente dolce e seducente, che ci ricorda l’enorme potenziale che ha questo tipo di film” (il dramma romantico).
Anche Todd McCarthy si esprime molto favorevolmente sulle pagine del Deadline: per lui, “La persona peggiore del mondo” offre uno sguardo “acuto e commovente su come trascorrono i presunti anni migliori, a volte così velocemente che a malapena ce se ne rende conto”.
Lo stesso Trier rimarca l’importanza che ha avuto il mettere in scena quel “compromesso tra come immaginiamo la nostra vita nel futuro e quello che diventa nella realtà”.
Persino Guy Lodge di Variety si spinge a dire che questo film “merita di diventare un film di riferimento per molte persone nate tra gli anni ‘80 e ’90”.
Effettivamente, il punto di forza di questo film è la simpatia con cui ci porta a prendere il fenomeno della crisi esistenziale: anche lo spettatore non più trentenne riesce a leggere in Julie tutte le incertezze che la vita ci mette davanti, ma si troverà – forse per la prima volta dopo tanto tempo – a riderci sopra, come se le crisi non fossero così spaventose come sembrano. Nemmeno quando vengono complicate dagli incontri amorosi con terzi.
È trascorso parecchio tempo da quando abbiamo visto al cinema la figura di una donna insicura e oppressa da domande senza risposta: non è un caso che i critici abbiano fatto un paragone immediato tra la Julie di Joachim Trier e la Amelie di Jean-Pierre Jeunet o ancora con la Holly Golightly di Blake Edwards. Si può dire, anzi, che Julie sia la perfetta sintesi di entrambe: non troppo “stralunata” e ingenua come la prima, ma neanche troppo distaccata e individualista come la seconda.
Questa perfetta sintesi ci porta, però, a un primo dubbio: forse la debolezza di Julie sta nel fatto che è fin troppo neutra per capire, in modo oggettivo e asettico, di essere nel bel mezzo di una “tempesta”?
Il suo essere una persona tendenzialmente mite di carattere – anche quando litiga con i partner o constata la totale indifferenza di sentimenti da parte di suo padre – non si sposa con la gran quantità di insicurezza che ne stanno soffocando la creatività. “Chi sono?” e “perché esisto?”, oppure “quale lavoro è più adatto a me”, o ancora “chi amo di più tra i due?” sono domande che, proprio perché sono agghiaccianti, meritano una maggior presa di coscienza che un semplice accettare gli eventi in modo passivo.
Julie rompe le due relazioni più belle che abbia mai avuto non perché sia in attesa dell’amore perfetto (come Amelie) o perché sia, invece, timorosa di legarsi a qualcuno pena la perdita della sua indipendenza (come Holly): Julie non è in grado di ammettere che semplicemente non sa affrontare la vita e deve isolarsi dagli altri per non ferirli, ma anziché essere onesta e stabilire rapporti più “equi”, si lancia ulteriormente nel vuoto dove in teoria si trovava già.
Ecco che i paragoni con le altre importanti figure femminili di donne complicate rischiano di perdere la loro legittimità.
In ultima istanza, la regia di Trier scorre in modo gradevole, e la divisione in capitoli consente di accrescere la suspense e il desiderio di andare ancora oltre. Tuttavia, sarebbe stato più opportuno adottare una scansione cronologica dal primo all’ultimo, anziché fare cominciare la storia, arbitrariamente e in medias res, dal secondo capitolo per poi tornare al primo e approdare al dodicesimo. Valeva la pena adottare un unico flashback e collocarlo alla fine dell’odissea vissuta da Julie, cioè la sua (presunta) ritrovata serenità.
Il film è, a conti fatti, un importante capitolo della odierna cinematografia contemporanea che si basa su una forte introspezione psicologica (e la suscita anche allo spettatore), nonostante le imperfezioni di metodo narrativo e di concezione del personaggio principale.
Vorrebbe avere una conversazione con Audrey Hepburn, ma si accontenterà di sognarla guardando i suoi film.
Ama leggere: legge qualsiasi cosa scritta su qualsiasi superficie materiale e, se la trova particolarmente attraente, la ricopia subito senza pensarci troppo.
E fu così che iniziò millemila quaderni delle citazioni sparpagliati tutti sulla sua scrivania in disordine.