Un anno di ritardo è costata la visione di El club agli italiani che dal 25 febbraio possono gustare su grande schermo l’ultimo film di Pablo Larraìn, pellicola che si aggiudica il gran premio della giuria al 65° Berlinale.
El club è un film che non ha tempo da perdere, ha fretta di raccontare e parte spedito come un treno. Dopo dieci minuti Larraìn comincia a far fuoco sui suoi spettatori che, disarmati, possono solo restare ad ascoltare, totalmente pietrificati.
Quattro sacerdoti convivono in una casa sotto la supervisione di una donna, evitando contatti con la gente del paese; soli assieme per trovare la redenzione. Se questa è la premessa, va detto che la redenzione in questo film è un elemento completamente assente, qualcosa di volutamente abbozzato, una presenza evanescente, inafferrabile.
Sovrano di questo dramma è il passato, entità temporale sacra e demoniaca allo stesso tempo. Il passato dei quattro sacerdoti è da tenere chiuso in cantina.
È l’ultimo arrivato a scoperchiare il vaso di pandora, il nuovo sacerdote prossimo alla penitenza che meno degli altri è in grado di tenere a bada il suoi scheletri nell’armadio.
Questo passato invadente ha un nome, Sandokan, un uomo che è stato inchiodato sui suoi ricordi con la forza, che non è stato in grado di nascondere nulla, un ragazzino vittima di violenza sessuale recluso in un labirinto la cui unica via d’uscita sembra essere il contatto con lo stesso sacerdote, il suo carnefice.
I quattro uomini, dopo un sanguinoso evento, sono sorvegliati da un ente esterno, un curatore degli affari della chiesa più che una guida; un superiore che deve decidere se chiudere o meno la casa del castigo, contaminata da corse con i cani e altri vizi poco ortodossi. Una figura dalle vesti quasi angeliche che, nel club, conosce gli illimitati poteri della debolezza umana. Tutti assieme combattono un nemico comune, Sandokan, o meglio la storia che questo relitto umano trascina con se. Devono farlo per preservare un ente che si arrampica sull’algida trama di Larraìn: la chiesa.
Il regista, con l’aiuto di Calderòn e Villalobos sulla sceneggiatura, fa coscientemente l’iconoclasta, demolisce il sacro e ricostruisce tutto da capo. Tutti i personaggi, a turno, cominciano a decadere, smembrati e ridotti alla pura coscienza, spogliati in un camerino che non ha più silenzio. Il regista martella con temi quali l’omosessualità, la pedofilia, la linea di confine tra amore ed ossessione. Un film che scotta a 360°, che divide la critica; un dito in una ferita aperta. I dogmi hanno bisogno del silenzio, un mutismo accondiscendente. Il regista qui infila la gola e comincia ad urlare, si fa sentire, bistratta. Infine, sulle rovine create, decide di richiudere la botola, vuole dare tregua. E la tregua sarà un nuovo silenzio, differente, fatto di consapevolezze e colpe comuni. Una quasi redenzione. Quasi, perché la speranza che ci propone Larraìn sul finale è fasulla, non possiamo crederle affatto.
El club è un film di testa e spirito, ragionato e sentito allo stesso tempo. Ha messo le mani sull’orso d’argento con prepotenza, meritandolo senza forse e senza ma.