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#Arrival. Pensa come parli o parla come pensi.

#Arrival. Pensa come parli o parla come pensi.

Presentato alla scorsa mostra d’arte cinematografica di Venezia, Arrival, il film del regista canadese Denis Villeneuve basato sul racconto Storia della tua vita di Ted Chiang, arriva nelle sale italiane il 19 gennaio. Dodici misteriose astronavi extraterrestri approdano sulla terra. La linguista Louise Banks viene inserita in una squadra militare assieme al fisico teorico Ian Donnelly, con il compito di decifrare il complesso linguaggio degli extraterrestri e capirne le intenzioni da invasori o turisti. Intanto nazioni come la Cina, non vantando nervi saldi, emanano un ultimatum al “guscio” comparso sulla propria nazione prima di muovere guerra, proprio mentre Louise comincia a capire qualcosa. Sarà compito di Louise evitare la guerra innescata dall’incomprensione. 

Difficile stare al passo di Villeneuve questa volta. Difficile è tenergli la mano fino alla fine. Farlo vuol dire saltare in una grossa e densa palla nevrotica, vischiosa e cervelloide, per poi librarsi nell’aria e rendersi alieni alla propria individualità umana. Il regista canadese in Arrival espone un modello più filosofico che scientifico per comprendere la razza aliena e non solo. Il nuovo linguaggio è autocoscienza circolare, un muoversi nel tempo nelle esperienze future per mezzo del pensiero che, perdendo la linearità tipica di ogni linguaggio umano, va a districarsi su concetti nuovi, nuovi anche per lo stesso regista che vuole parlare tanto ma finisce per biascicare qualcosa, come chi interrogato ed impreparato ad un esame comincia a sudare freddo e a brancolare nel buio. Ma Villeneuve è un gran furbone, e dal suo iperbolico filosofare riesce a venirne fuori con una serie di bei flashforward che non invidiano nulla alle poetiche riprese di Terrence Malick. Parlare alieno è pensare senza schemi, quindi si può spiare nel futuro: il fallimento matrimoniale, la morte della propria figlia ed i successi editoriali del libro che spiega come parlare lo stesso tipo di linguaggio, oltre al trovare la naturale soluzione allo scontro mondiale. Belle le scenografie per quel luogo di mezzo che fa da confine tra i due mondi, uno stanzone alieno nero tappato da una grossa vetrata. E sì, perchè in Arrival gli extraterrestri, seppure con tutte le buone intenzioni, prevedono la pericolosità umana, un po’ come noi spettatori prevediamo presto le mosse e le sagome solite del film con scenario apocalittico, tutte presenti a pacchetto nel film. Villeneuve aggiunge alla filosofia e alle belle riprese anche l’attimo emozionale carico di salvifico; seppure il futuro conduca al dolore vale sempre la pena ri-viverlo. 

Un inno alla vita vero e proprio che pecca di tracotanza nei confronti del Dio che sta invadendo da alcuni anni il cinema fantascientifico e non: il tempo. Il viaggio temporale in questo caso stupra e consuma ciò che in modo più asciutto, semplicisticamente umanoide, avrebbe fatto breccia nel cuore del pubblico con un’impronta più minimalista. Siamo gente lineare dopotutto.

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