Ancora Iran, ancora il nuovo cinema di Tehran. Questa volta parliamo di un film che non condivide nulla con quanto già visto e detto.
Presentato alla sessantaseiesima edizione del festival di Berlino, A dragon arrives! arriva proprio quando meno ce lo aspettavamo. Un film che non si lascia imbrigliare dalla tradizione cinematografica che lo ha portato alla luce.
Hafizi indaga sulla morte di un esiliato trovato morto impiccato all’interno della sua dimora, confinante con uno strano cimitero avvolto nel mistero. L’ispettore convoca due amici, un ingegnere del suono e un geologo per fare ricerche su quello che sembra essere un omicidio e non un suicidio. Ben presto, più che indagare sulla morte di un uomo, i tre si ritroveranno alle prese con entità invisibili dai poteri incomprensibili.
Che bello “A dragon arrives!”! Questa è la prima sensazione che a caldo trasuda dopo la visione. Haghighi ha davvero superato tutti i suoi connazionali in questa gara, mostrando la sua capacità di ignorare i binari che direzionano il cinema iraniano, per quanto intimi e sempre affascinanti. Allora niente famiglie sul lastrico, nessun problema con la giustizia, nessuna faida familiare da freddare, manca perfino il grigiore della fotografia.
Il suo teatrino Haghighi lo costruisce in un bianco e caldo deserto, tra rocce polverose e famigerati cimiteri abitati da antichi spiriti. Spezzettato con alcuni ritagli documentaristici in cui il regista spiega e motiva la sua pellicola, il film si gusta meglio ignorando completamente il fatto che A dragon arrives! fonda le sue basi su una storia vera, incredibile, a tratti inverosimile, ma vera. Vera ma incompleta, interrotta all’improvviso e conclusa con alcune trovate narrative che sfociano nel surrealismo.
Il giallo iraniano è gustabile sotto ogni aspetto, mai deludente e perfino contorto per certi versi. Contorto ad esempio è comprendere le apparizioni di alcuni riflessi degli stessi personaggi, sagome e apparizioni di doppioni, cloni inesistenti che guidano profeticamente i nostri tre esploratori verso la giusta via. Ma il film di Haghighi, a nostro parere, ha molto da raccontare oltre la narrazione accattivante dell’indagine.
Indagare, è questa la parola chiave. Ma indagare chi o cosa? Indagare se stessi è la giusta via, il proprio senso, indagare l’indagatore. Dunque la sequenza finale del film non è un equilibrista che cammina sul filo sospeso tra realtà e onirismo. Un cammello, vecchio , sofferente, che si lamenta, altro non è che lo spirito del medio oriente, lo spirito del mondo arabo che incontra il fantasma di uno dei tre amici. Sarà importante il messaggio, difficile riferirlo, ancora più improbabile farlo recepire:” Abbiano dimenticato qualcosa”, e cosa gli iraniani abbiano dimenticato noi non possiamo apprenderlo.
Insomma, una lettura storico-politica del film, forse frutto di viaggi mentali improbabili. Haghighi potrebbe aver girato un noir in stile “nuova onda”, o forse ha voluto criptare un messaggio preciso, proponendoci di riavvolgere i nastri e ascoltare ancora.
Qualunque sia la soluzione, un film consigliato calorosamente.