Continuano a Milano gli eventi del palinsesto “I talenti delle donne”, questa volta a Palazzo Reale con una mostra dedicata all’impavida fotografa americana Margaret Bourke-White, visitabile fino al 14 Febbraio 2021. Curata da Alessandra Mauro, promossa e prodotta da Comune di Milano Cultura e da Contrasto, in collaborazione con Life Picture Collection e Canon, l’esposizione si snoda per oltre cento foto divise in undici gruppi tematici che raccontano la carriera dell’artista dagli esordi agli ultimi scatti.
Di due cose Margaret Bourke-White non aveva paura: delle altezze e della verità.
Nata nel 1904 a New York da un padre inventore, bionda, fresca, avvenente come appare in alcune immagini introduttive, e destinata a essere una delle prime fotoreporter della storia quando ancora quel mondo era declinato al maschile.
Alla fotografia si appassiona durante l’università, presto apre uno studio a Cleveland dedicandosi a immagini per la pubblicità e l’industria. Le famose foto delle acciaierie, che spesso la vedono arrampicata a metri da terra sprezzante del pericolo, testimoniano il crescente progresso economico alla soglia degli anni Trenta negli Stati Uniti. Scorci di fabbriche e operai, di cantieri, di dettagli come cavi arrotolati o lamine per la rifilatura, che il suo sguardo trasforma in affascinanti simboli dell’evoluzione tecnica.
Sul finire degli anni Trenta con la Depressione che devasta il Paese i soggetti cambiano. È il sud martoriato dalla siccità a essere ora immortalato. Luoghi di povertà, persone in posa nella loro immobile quotidianità, spostano l’attenzione verso ciò che non può essere taciuto. Volti e luoghi persi in un tempo che pare infinito, andranno a comporre il libro “You have seen their faces” realizzato con l’allora consorte, lo scrittore Erskine Caldwell.
È il lavoro per le riviste, però, che dà una svolta alla sua carriera: prima con “Fortune” dove è invitata a collaborare nel 1929 e poi per l’innovativa “Life” alla cui nascita partecipa attivamente.
L’obiettivo si sposta all’interno delle fabbriche, a testimoniare le condizioni dei lavoratori e le lotte in atto. Ci sono istantanee di operai al lavoro e nei momenti di svago, e poi l’alluvione del Kentucky. Emblematico lo scatto dove una fila di persone, di cui nessun bianco, aspetta il turno per il cibo sotto a un cartellone pubblicitario che riporta la scritta “There’s no way like the american way” vicino a una ridente e bionda famiglia americana.
Per la rivista “Fortune” viaggia in Russia, dove torna spesso, ma è per “Life” che realizza il famoso ritratto di Stalin del 1941, affiancato a quelli dei volti del popolo contadino; c’è poi un’istantanea che cattura l’attenzione: una classe di bambini con ali di farfalla danzano con dietro il profilo di Stalin stampato su una grande bandiera nera.
Margaret è la prima donna corrispondente di guerra con una uniforme cucita apposta per lei. Si sposta su vari fronti, tra cui il “dimenticato” fronte italiano, dove fotografa Roma con le strade invase dalla folla per il mercato nero, gli appostamenti dei soldati sugli Appennini, e Napoli con le famiglie sfollate che fanno di una cava il rifugio di fortuna.
Arriva in Germania quando nell’aprile del 1945 iniziano ad aprire i campi di concentramento e realizza il servizio su Buchenwald.
“Spesso mi chiedono come sia riuscita a fotografare tali atrocità. Per lavorare ho dovuto coprire la mia anima con un velo. Quando fotografavo i campi, quel velo protettivo era così saldo che a malapena comprendevo cosa avevo fotografato[…]”
Un velo protettivo che svela una verità spesso ostinatamente negata. La verità di un prigioniero che riabbraccia gli amici; di quel che resta dei morti ammassati in un angolo mentre in primo piano una donna passa coprendosi gli occhi; e poi le camerate di volti scheletrici ma dallo sguardo vivo; degli uomini “in posa” dietro il filo spinato. Ma c’è anche la foto di un suicidio in un interno: sono i corpi esanimi del vicesindaco di Lipsia e dei suoi familiari che scelsero la morte piuttosto che arrendersi agli americani.
Si passa poi al reportage sull’India nel momento della liberazione dall’Impero Britannico e divisione dal Pakistan. Qui si trova la celebre foto di Gandhi all’arcolaio ripreso proprio qualche ora prima della sua uccisione.
Negli anni Cinquanta la fotografa è in Sud Africa a raccontare la realtà dell’Apartheid, del lavoro minorile e di quello nelle miniere, dove si cala a miglia di profondità per poter fotografare i minatori d’oro a Johannesburg. Famoso anche lo scatto con sfondo panoramico di Seretse Khama, primo presidente Botswano, con Ruth, la contestata moglie inglese e bianca.
Un’altra sezione è dedicata al periodo delle lotte civili nel sud degli Stati Uniti, nel 1956 a Greenville in Sud Carolina. Le immagini per la prima e unica volta a colori, ritraggono scene di vita quotidiana che ricordano le note pubblicità nate per esaltare la bellezza dello stile di vita americano, ma dove non passa inosservata la divisione tra neri e bianchi che non appaiono quasi mai insieme se non quando gli uni sono al servizio degli altri.
Dai fondali delle miniere all’alta quota, sul finire della mostra si ritorna negli Stati Uniti. In volo la fotografa realizza una serie di scatti di vedute dall’alto per i cieli di Manhattan e Coney Island con gli aerei che le passano sotto il naso.
Dopo un’intervista a distanza del 1955 dalla sua casa nei boschi del Connecticut dove afferma: “La verità è la prima cosa che cerco quando devo scattare una foto”, la mostra si conclude con le istantanee che il fotografo Alfred Eisenstaedt le scatta nei momenti della malattia, il morbo di Parkinson, con cui combatterà tenacemente per 20 anni fino alla morte nel 1971.
Come riportano le parole della curatrice, Margaret Bourke-White fu prima in tutto, pioniera in un’epoca in cui alle donne era concesso ben poco. Ma il coraggio e la visione schietta e profonda la rendono, prima di tutto, donna.
“Una donna che vive una vita vagabonda deve essere capace di affrontare la solitudine […]. Se sai di poter contare su di te, la vita può essere molto ricca, anche se questo richiede una grande disciplina.”
Dal mare sono approdata a Milano ormai 15 anni fa, la frenetica città è diventata così culla della mia formazione mentre le radici rimangono piantate tra salsedine e pini marittimi, in equilibrio nostalgico tra passato e presente.
Da sempre proiettata verso l’esigenza di esprimermi in maniera creativa, ho deciso di assecondare questa tendenza e studiare arte e poi moda, per poi scoprire che la cosiddetta “creatività” è applicabile a ogni ambito dell’esistenza, quando parliamo col vicino di casa, andiamo a far la spesa o ci si intasa il lavandino, quando cuciniamo per dieci persone con due ingredienti nel frigo o cerchiamo di far quadrare i conti alla fine del mese.
Come un’ape in cerca del polline vago tra i miei molteplici interessi, alcuni sfumati nello scorrere degli anni e altri ancora in auge. Tra i fiori verso cui attingo al momento ci sono i libri, lo swing, la pittura, il vino e il cibo, il teatro, lo studio dello yoga e di uno stile di vita più “umano”. La scrittura, invece, è rimasta costante della mia vita.
Scrivo da quando ho iniziato a dare senso compiuto alle parole, inizialmente per istinto e necessità e poi per passione, prediligendo in assoluto il gesto postumo di correggere per cento e più volte il testo battuto di getto sulla tastiera. Sono incuriosita da tutto ciò che è comunicazione (compreso il silenzio), quel ponte tra noi e il mondo ultimamente troppo sottovalutato.