A un certo punto della sua carriera Robert Capa andava in giro con due macchine fotografiche, una per le tradizionali pellicole in bianco e nero, e l’altra per quelle a colori. Allestita ai Musei Reali di Torino fino al 31 Gennaio, “Capa in color” svela il sapiente uso che il fotografo, noto per essere maestro del bianco e nero, prima di molti suoi colleghi fece delle prime pellicole a colori prodotte dalla Kodak. Curata dall’International Centre of Photografy di New York, prodotta dalla società Ares e dai Musei Reali, si compone di 150 immagini che per la prima volta in Italia guideranno il pubblico nel lavoro di uno dei più grandi fotografi di guerra.

Un uomo bruno dietro una macchina fotografica, così appare Endre Ernő Friedmann in alcune foto che lo ritraggono, nato nel 1913 in Ungheria e di origine ebraica , “inventò” il personaggio Robert Capa come espediente per poter vendere le sue fotografie in epoca di persecuzioni razziali. Studiò giornalismo, e divenne fotografo inizialmente lavorando come fattorino in un’agenzia fotografica dove ben presto il suo talento si fece notare. Iniziò così la sua carriera supportato dalla compagna e manager Gerda Taro.

La verità è l’immagine migliore, la migliore propaganda

Capa diede un’ importante impronta alla fotografia come reportage, raccontando senza pudori un intenso periodo storico e sociale, quello tra gli anni Quaranta e Cinquanta. Con gli amici Henri Cartier-Bresson, David Seymour, George Rodger e William Vandivert fondò nel 1947 la Magnum, nota agenzia fotografica e cooperativa di fotografi che contribuì non poco anche a promuovere e scoprire nuove generazioni di talenti.

Fu proprio nei reportage di guerra che il fotografo iniziò a usare le pellicole a colori offrendoci delle istantanee che tutt’oggi colpiscono il nostro sguardo così abituato a una visione in bianco e nero di quei momenti storici. La mostra si apre con gli scatti realizzati tra il 1941 e il 1943 a bordo delle navi che trasportavano le truppe da un continente all’altro, come il celebre servizio dello sbarco in Normandia. I colori sono quelli freddi e pungenti dei mari e del cielo, o quelli terrosi dei paesaggi. I militari all’opera nei cantieri, intenti in riunioni strategiche o in momenti di svago a scrutare l’orizzonte, messi in posa oppure no, sono ritratti con la potenza espressiva che racconta dell’essere umano che vive sotto ogni divisa, dell’anima dietro il volto.

Dello stesso periodo è il servizio su Ernest Hemingway e famiglia realizzato nella Sun Valley, in Idaho, per la rivista “Life” che alla fine selezionò solo le immagini in bianco e nero. Scelta non infrequente per l’epoca forse ancora poco avvezza al tipo di proposta innovativa che l’uso del colore poteva rappresentare.

L’obiettivo di raccontare modelli sociali e stili di vita lontani ai lettori delle riviste americane di quegli anni come “Holiday” e “Ladie’s Home Journal”, lo portarono a viaggiare per il mondo. Insieme allo scrittore John Steinbeck approdò in Unione Sovietica nel 1947, con l’intento di dare voce alla gente comune mentre l’attenzione era focalizzata sulle dinamiche della guerra fredda in corso; i protagonisti diventano così le donne al lavoro nei campi di tè, le scolaresche, le folle nella piazza Rossa. Fu in Marocco e poi in Ungheria, sua patria natale, dove realizzò un intenso reportage per il rotocalco “Holiday” testimoniando il mutamento sociale del paese. In Israele ritrasse i colori tenui della luce e della terra arida, testimoniando gli effetti che il conflitto arabo-israeliano aveva sulla popolazione costretta a emigrare o sulle città semi-distrutte dai conflitti.

L’uso della pellicola a colori consentì al fotografo di rendere più appetibile e competitiva la sua arte adeguandola al mutare dei tempi. Iniziò a documentare i cambiamenti sociali anche fotografando l’alta società degli anni Cinquanta. Uno dei primi servizi riguarda la stagione sciistica a Klosters in Svizzera. I colori sono ora quelli vividi della luce di montagna, i cieli tersi con i soggetti che si stagliano su sfondi innevati: attrici, principi e personaggi bizzarri noti o meno, protagonisti di un bel vivere, in contrasto con gli anni bui della guerra.

Dalla neve al mare la scala cromatica diventa quella tenue di Deauville e Biarrits località turistiche del nord della Francia tra donne in bikini, colonie di bambini, feste di paese e ritrovi all’ippodromo dove anche i preti non disdegnavano di andare.

Di Roma ritrasse il mondo un po’ decadente dell’alta società, interni festaioli hanno la luminosità fredda e rivelatrice di un fotogramma cinematografico; protagonista di più scatti, l’attrice francese Cappucine ripresa tra mura storiche è invece avvolta nella calda luce della capitale.

Nel 1953 realizzò un servizio su Parigi, città dove visse dal 1933 al 1939, un encomio alla  monumentale bellezza con vedute di Place Vendôme o dell’Arco di Trionfo, ma anche ai cliché che la contraddistinguono come il pittore con basco in Montmartre o i servizi di moda per Dior, che trovano il loro culmine nei contrasti ironici che l’occhio di Capa era abile a cogliere, come un cane seduto ai tavolini di un bistrot insieme agli altri avventori o una gallina che passeggia indisturbata sui marciapiedi.

Negli anni Cinquanta immortalò anche attori e registi su vari set cinematografici in Europa, per lo più scatti rubati che mettono al primo posto la personalità dei soggetti. Da John Huston nel suo film “Mouline Rouge” ad Anna Magnani sul set di “Bellissima”; compare poi spesso Ingrid Bergman con cui ebbe anche una relazione sentimentale, e Ava Gardner ne “La contessa scalza”; Humphrey Bogart e Trumane Capote in veste di protagonista il primo, di sceneggiatore il secondo, ne “Il tesoro dell’Africa”, per citarne alcuni.

In quegli anni fu anche in Inghilterra, Giappone e soprattutto in Norvegia a ritrarre le famiglie lapponi, e i paesaggi freddi e spettacolari di questa terra del Nord, come lo scatto di una regata alle Isole Lofoten cui gli spettatori assistono seduti su una scogliera. Realizzò qui, oltre che a Parigi e in Germania, il servizio “Generazione X” con altri colleghi della Magnum, per raccontare i sogni delle generazioni nate prima della guerra. Volti ripresi nella loro verità di sorrisi, dubbi e certezze, che fossero ragazze dell’alta borghesia francese o più umili giovani del Nord Europa.

Ma arrivò, per Capa, anche il richiamo delle origini. Nel 1953, infatti, accettò di sostituire un collega in Indocina per documentare il conflitto franco-vietnamita. Partì con un gruppo di addetti ai lavori per proseguire poi da solo al seguito dei soldati che avanzavano attraverso i campi.

Richiama l’attenzione una scena in quattro riprese che mostra un gruppo di uomini intenti a risalire da un campo verso la strada con una bici carica di beni. In ogni foto il gruppo con fatica sembra spostarsi di poco mentre la scena vicino a loro muta in successione. È una sequenza a cui si potrebbe attribuire un significato tragicomico se non fosse schietta testimonianza di un’umanità ancora una volta provata da un conflitto.

Il 25 maggio 1954 mentre si accingeva a realizzare una foto Robert Capa morì calpestando una mina antiuomo. Il 7 giugno “Life” titola” “A photographer’s journal… up to this final war”.

Si chiuse così, quasi come era iniziata la vita del fotografo: sul campo di battaglia, vicino all’umanità e al centro della vita pulsante, a raccontare la guerra.

Se le vostre foto non sono abbastanza buone, non siete andati abbastanza vicino.”